Dopo il divorzio. Grazia Deledda

Dopo il divorzio - Grazia Deledda


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Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.

      – Malthina Dejas ti aspetta, – gli disse zia Bachisia. – Va.

      – Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, – rispose Giacobbe, – ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.

      – Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, – disse una voce sonora.

      – Ah, siete lì, zio Isidoro, – disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. – Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?

      Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:

      – Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.

      – Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.

      E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.

      – Zia Bachisia, – disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), – fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, – disse poi agli astanti, – facciamo una cosa, andiamocene via.

      A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.

      – Va a letto, – le impose la madre.

      Ella guardò la porta e mormorò:

      – Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo…

      – Va a letto, va a letto… – disse la madre, con voce viepiù rauca.

      La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.

      E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.

      Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.

      Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere; e s'arrabbiava contro il dolore di Giovanna, ma nello stesso tempo anch'essa finalmente piangeva.

      IV

      L'indomani a sera, – un sabato, – Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato da cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei mostravasi amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto nero e molto magro, di media statura, con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando conversava con donne sorrideva continuamente per mostrarli.

      Rientrando di campagna, il sabato sera, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine egli era un lavoratore, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato egli rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d'un pezzente.

      – Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane – diceva, scaricando il cavallo. – Accendete dunque il lume, almeno, chè non ci si vede neppure per imprecare. Che c'è da mangiare? – chiese poi.

      – Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza – disse zia Martina. – Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent'anni?

      – A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perchè non lo buttate alle galline? Alle galline! – ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

      Zia Martina rispose tranquillamente:

      – Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

      – Ci siete stata voi da quelle donne? Ah! ora saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, – diss'egli con curiosità; ma appena la madre ebbe detto che c'era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli, e che zia Bachisia le aveva fatto capire d'essersi pentita di non aver affogato la figliuola prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

      – Perchè ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

      – Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! (Zia Martina, pretendeva di essere caritatevole). C'era anche prete Elias, questa mattina; sì, egli andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io dicevo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere.

      – Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti egli è un uomo sterile, – disse Brontu, che odiava i preti, perchè un suo zio, parroco del paese prima che da Nuoro venisse mandato prete Elias Portolu, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

      – Cosa dici tu, scimunito? – disse, anche questa volta segnandosi. – Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

      – Allora è un bel santo! – osservò Brontu, poi insistè per avere particolari sulla disperazione delle Era. – Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

      Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre il resto, ora l'avvocato e le spese di giustizia l'avrebbero cacciata nuda anche di casa.

      Il giovine ascoltava con viso intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza egli era semplicemente feroce.

      – Ecco, – disse poi zia Martina, – Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio da domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiar a ufo?

      – San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia…

      – Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga,


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