Dopo il divorzio. Grazia Deledda
bambini singhiozzavano fra lo stridìo dei grilli, nella notte serena.
II
L'indomani mattina Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un roseo barlume d'aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.
Appena svegliata, la giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono fortissimo l'avvolgesse. Ricordava.
Quel giorno doveva decidersi il destino del suo sposo. Ella aveva la certezza della condanna di Costantino, ma si ostinava a sperare ancora. Che egli fosse o no colpevole ella non pensava affatto, e forse non aveva pensato mai: solo la conseguenza del fatto, la separazione forse eterna da quell'uomo giovine, dalle forme svelte e forti come quelle d'un veltro, dalle mani liscie e le labbra ardenti, la martoriava. E nel ricordare sentì tanta angoscia che balzò incoscientemente dal letto e cominciò a vestirsi, dicendo con voce anelante:
– E tardi, è tardi, è tardi…
Zia Bachisia apri i suoi piccoli occhi di lucciola, ed anch'essa si alzò; ma sapeva bene ciò che doveva accadere quel giorno e il giorno dopo e un anno e due e dieci anni dopo, per non scalmanarsi. Si vestì, intinse le mani nell'acqua e se le passò sul viso una sola volta; poi s'asciugò e avvolse la benda sul capo con somma cura.
– È tardi, – ripeteva Giovanna. – Dio mio, è tardi…
Ma la calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di recar da mangiare all'accusato), mise tutto in un canestro e s'avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.
Le vie erano deserte; il sole, appena sorto sulle cime granitiche dell'Orthobene, inondava l'aria di pulviscoli d'oro roseo; il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l'aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa, non ancora animato dalla gente e dal suono delle campane. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione (presso cui abitavano i Porru) conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati come un enorme diadema d'ametista sull'orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l'aria piena di profumi selvatici, pensava alla sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.
La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e nella luminosità mattutina la sentinella immobile e muta pareva una statua: un cespuglio verde sorgeva accanto al muro del carcere, accrescendo la tristezza del luogo. Il portone verdognolo che di tanto in tanto si socchiudeva come la bocca d'una sfinge, s'aprì per inghiottire le due donne. Tutti là dentro, nell'antro orrendo, conoscevano le due sventurate; dal capo-guardiano, rosso e imponente, che sembrava un generale, all'ultima guardia pallida dai baffi biondi ritti, che aveva pretese d'eleganza.
Nell'andito buio e fetente si sentiva già tutto l'orrore dell'interno: le due donne non procedettero oltre; ma il guardiano pallido ed elegante venne a prendere il canestro, e Giovanna gli chiese sottovoce se Costantino aveva dormito.
– Sì, egli ha dormito, ma sognava, sognava. Diceva: Il peccato mortale.
– Ah, quel suo peccato mortale, che egli vada al diavolo!.. – disse zia Bachisia. – Dovrebbe finirla!
– Mamma mia, perchè lo imprecate? Non è egli abbastanza maledetto dalla sorte? – mormorò Giovanna.
Ritornate fuori, le due donne attesero l'uscita dell'accusato. Quando Giovanna vide i carabinieri che dovevano condurlo alla Corte, cominciò a tremare convulsivamente, sebbene anche i giorni avanti l'avesse visto uscire fra di loro. I suoi occhi neri s'allargarono, fissando il portone con uno sguardo pazzo. Minuti d'attesa spasmodica trascorsero: la bocca della sfinge si socchiuse ancora e fra i gendarmi dal viso grigio di granito e i lunghi baffi neri, apparve la figura di Costantino. Era alto ed agile come un giovane pioppo: due bende di capelli neri, lucidi e lunghi, incorniciavano il suo viso sbarbato d'una bellezza femminea, sbiancato dalla prigionia; aveva due grandi occhi castanei e una piccola bocca di fanciullo innocente. E la fossetta sul mento: sembrava un giovine Apollo.
Appena vide Giovanna, sebbene anch'egli aspettasse quel momento, si fece ancora più bianco e si fermò resistendo ai soldati. Giovanna gli si precipitò davanti e singhiozzando gli strinse la mano incatenata.
– Avanti, – disse un carabiniere, con voce dolce, – tu sai che non è permesso, buona donna.
Ma anche zia Bachisia s'era avvicinata, saettando il gruppo con lo sguardo dei suoi piccoli occhi verdi. I carabinieri si fermarono un istante, Costantino disse con voce ferma, quasi lieta:
– Coraggio! coraggio! – ed ebbe la forza di sorridere a Giovanna.
– L'avvocato ti aspetta là, – disse zia Bachisia mentre i carabinieri respingevano dolcemente le due donne.
– Buone donne, andate via, andate, – dissero, trascinando via l'accusato. Egli sorrise ancora a Giovanna, mostrando i denti bianchissimi fra le labbra fresche ma pallide, e s'allontanò fra le due figure che sembravano di granito.
Zia Bachisia a sua volta trascinò via Giovanna, che voleva seguire il marito; e la ricondusse in casa Porru per far colazione prima di recarsi alla Corte. Il sole inondava il cortile; sui pampini lucenti del pergolato, da cui pendevano lunghi grappoli d'uva acerba che parevano scolpiti in marmo verde, le rondini cantavano guardando il sole, e zio Efes Maria, montato sul suo cavallo baio, disponevasi a partire per la campagna. Che luce e che festa in quel cortile, cinto soltanto da un piccolo muro di pietre, e dal quale godevasi un vasto orizzonte! I bambini mangiavano la loro zuppa di caffè-latte seduti sul limitare della porta di cucina; Grazia era andata a mangiar la sua in un cantuccio, forse per non essere veduta dallo zio studente in quella prosaica operazione, mentre egli, in maniche di camicia, in piedi in mezzo al cortile, divorava il suo grande scodellone di zuppa. E zia Porredda gli lustrava le scarpe, tutta meravigliata per i racconti che andava narrandole il figliuolo.
– Come è grande San Pietro? (Bisogna spiegare che Paolo era stato solo quell'anno a Roma). Ebbene, è grande quanto una tanca. Non si può neppure pregare. Come si può pregare in una tanca? Gli angeli sono grandi come quella porta, gli angeli più piccini, sapete, quelli che sostengono la pila dell'acqua santa.
– Ah, allora bisogna metter la scala, per prender l'acqua.
– No, perchè essi sono inginocchiati, mi pare. Datemi un altro po' di caffè-latte, mamma. Ce n'è?
– Sicuro che ce n'è. Sei tornato ben affamato, piccolo Paolo mio: sembri un pesce-cane.
– Sapete quanto costa una zuppa così a Roma? Una lira, non meno. E il latte è acqua.
– Che sieno benedetti! È spaventevole ciò!
– Ah, sapete! Ho visto i delfini, in mare. Oh, come erano curiosi! Ah, ecco le ospiti. Buon giorno. Cosa avete fatto?
Giovanna raccontò l'incontro col marito, e voleva ricominciare a piangere, ma zia Porredda la prese per mano e la condusse in cucina.
– Oggi tu hai bisogno di forze, anima mia; mangia, mangia, – le disse, presentandole una gran tazza di caffè-latte.
Poco dopo le due donne uscirono per andare alla Corte d'Assise, e Paolo promise loro di raggiungerle.
– Coraggio! – disse zia Porredda, congedandosi da Giovanna.
Ella sentì già la condanna di suo marito nella voce dell'ospite, e andò via a testa bassa, come un cane frustato. Paolo la seguì con gli occhi, poi andò verso sua madre, zoppicando come un pulcino ferito, e le disse una cosa strana:
– Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.
– Cosa dici, dottor Pededdu? – gridò la donna, che quando s'arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. – In verità mia, tu sei matto.
– Oh, mamma, io ho attraversato il mare! – disse egli. – Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato!
– Quel