Dopo il divorzio. Grazia Deledda
si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.
Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.
I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.
Qua e là sulla spianata, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. La spianata, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.
Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa ed il bimbo, che le veniva incontro col piccino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse fra le braccia, e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla del bambino. Ora il suo pianto era calmo, d'una disperazione profonda: le pareva che il dolore sino allora provato fosse nulla in confronto al dolore che provava ora. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po' ruvido e due piccoli occhi violacei lucenti, con una cuffia dura, rossa, circondata di frangie che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:
– Ah, aah, aaah…
– Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto… – disse Giovanna piangendo.
La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche essa. Zia Bachisia sopravvenne, spinse Giovanna entro casa e pregò la parente d'aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:
– Siete pazze, davvero. C'è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d'uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male…
– No, – disse la parente, – essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d'aver sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.
– Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D'altronde, – soggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, – essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.
Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s'ingannava assai credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.
– Ecco, – disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, – fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.
La parente prese subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò verso la casa bianca. Questa casa, che i Dejas avevano acquistato pochi anni prima all'asta, espropriata ad un mercante fallito, era grande e comoda, preceduta da un portico quasi signorile, dove zia Martina lasciava passeggiare i majaletti e le galline. Non era una casa per pastori selvatici come i Dejas, e il rozzo arredamento delle stanze, composto di letti di legno, altissimi e duri, di arche rozzamente scolpite, di sgabelli e sedie pesanti, lo dimostrava.
Zia Martina stava nel portico, e filava ancora (ella sapeva filare anche al buio) quando Maria Chicca le ricondusse il cavallo. La casa era completamente deserta, perchè Brontu ed i servi erano in campagna, e zia Martina non aveva domestiche. Ella aveva altri figliuoli e figliuole maritate, coi quali viveva in continuo dissidio a causa della sua avarizia. Quando in casa c'era molto lavoro chiamava persone del vicinato, spesso anche Giovanna e sua madre, compensandole malamente con derrate avariate. Queste persone erano tanto povere che si contentavano di tutto.
– Ebbene, come è andata? – chiese, deponendo il fuso e la piccola conocchia sul sedile del portico. Aveva una voce sottile e nasale, due occhi rotondi, chiari, vicini, su un naso finissimo e aquilino, e la bocca ancora fresca e rossa. – Tu piangi, Maria Chicca? Ho visto tornare le due povere donne, ma non ho osato avvicinarmi, perchè stanotte ho sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.
– Me lo avete già detto, zia Malthina. Ah, no, lo hanno condannato a ventisette anni…
Zia Martina parve contrariata, non perchè odiasse Costantino, ma perchè credeva infallibilmente ai suoi sogni. Prese la briglia del cavallo, e disse:
– Se posso vado dalle Era questa sera stessa, ma non so se potrò andarci perchè aspetto un uomo, già servo di Basilio Ledda, che deve entrare al mio servizio. Egli è stato testimonio; credo però sia già tornato da Nuoro.
– Credo, – disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.
Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.
– Senti dunque – disse poi a Giovanna – ella verrà forse stasera.
Giovanna non rispose, non si mosse.
– Non odi dunque, anima mia? – gridò la madre stizzita. – Verrà stassera.
– Chi? – domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.
– Malthina Dejas.
– Ebbene, che essa vada al diavolo!
– Chi deve andare al diavolo? – domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —
– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!
Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?
Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.
– Sia fatta la volontà di Dio, – disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. – Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio…
– Voi sapete? – chiese Giovanna.
– Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.
– Ah, zio Isidoro, – disse Giovanna, scuotendo il capo, – non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.
– Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era…
Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri