I Mille. Garibaldi Giuseppe
gli uomini di cuore che dopo la fallita impresa della capitale presero la campagna, congiungendosi alle squadre di quegli ammirabili picciotti sempre pronti a misurare i loro poveri fucili colle armi perfezionate dei soldati della tirannide, sempre pronti, senza dimandarne la causa, a correre in sostegno dei concittadini impegnati contro mercenari nostrani o stranieri.
E qui in onore del vero devo accennare che in nessuna parte d’Italia ho trovato tanta accostevolezza da uomo a uomo, da campagna a città, quanto nella Trinacria.
Sono certo che non vincendo, i Mille, dopo di aver bruciato ed abbandonato il naviglio, essi avrebbero scelto la sorte dei Leonida o dei Fabi. Ma dovunque nella penisola, essi non avrebbero trovato l’incrollabile fedeltà, ed il sostegno che a loro sacrarono i nobili discendenti del Vespro.
In nessuna parte del mondo fuori della Sicilia sarebbe stata possibile una marcia come quella dalla Piana dei Greci a Marineo, da Marineo a Missilmeri; da questo a Gibiltossa e finalmente dall’ultimo punto a Palermo nella notte dal 26 al 27 maggio all’insaputa del nemico.
Si ricordino quindi i reggitori moderni, che invece di tanto occuparsi nel rovinare le popolazioni con tasse, imposte, macinati e il diavolo – per gozzovigliare nel vizio e nella lussuria – essi non dovrebbero accrescer l’odio che han seminato a piene mani tra coteste energiche popolazioni del mezzogiorno. Odio, che aumenta in ragione geometrica. Odio, che non domeranno con tutti i birri della terra, che riuscirà forse impotente una o dieci volte per ora, ma che trascinerà finalmente il paese in uno di quei cataclismi che le venture generazioni ricorderanno con raccapriccio.
E non crediate, signori oppressori ed impostori, che tutte le rivoluzioni le avrete a passar liscie e immacolate di sangue come quella del 60.
Troppe sono le colpe vostre e troppo l’odio che giustamente vi portano le popolazioni da voi ingannate, umiliate, depredate, tradite!
CAPITOLO XIV
LA PRIGIONIA
Les cloîtres, les cachots ne sont point son ouvrage.
Dieu fit la liberté, l’homme a fait l’esclavage.
Il 4 aprile era trascorso, e la tirannide avea trovato il mezzo di far delle vittime sempre grate a Lei, perchè con ciò crede di frenare i popoli e mantenerli nel timore. Ma di quelle vittime che sono i martiri d’una causa santa, i coraggiosi raccolgono il sangue, vi tingono le fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la memoria – e… la vendetta… – E Dio alle volte paga tardi, ma paga giusto.
Gettando nella bilancia lo stato selvaggio dell’uomo da una parte e l’incivilimento dall’altra, dovrebbe certamente risultare per il bene dell’umanità il peso maggiore nel piatto civile. Eppure qualche volta l’uomo angosciato da reggitori perversi – occupati solo a tiranneggiarlo ed impoverirlo – si trova costretto a desiare la vita primitiva delle foreste, ove mangiava frutte di selva, è vero, ma non avea la schifosa presenza del prete, del dottrinario, del birro, di quella caterva d’arpie che col nome di moderati, cointeressati ministri, pubbliche sicurezze, ecc., lo spolpano, lo corrompono e lo prostituiscono allo straniero.
Tutta gente che vogliono lautamente vivere alle spalle sue accusandolo di rivoluzionario quando si lamenta di essere stracarico, e quando vorrebbe respirare un tantino, scaraventando tutta l’odiosa turba reggitrice all’inferno!
I Governanti sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e per lo più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto.
Al loro sorgere – tempi feudali – essi, dopo d’aver cacciato l’aquila dall’alpestre nido, l’occupavano – e di là piombavano sulle inermi popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e sostanze d’ogni specie per provvederne i loro covili che chiamavan castelli.
Ai tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituiti i satelliti, benchè i bravi, si chiamino Pubbliche Sicurezze – e i signori, Re o Imperatore – credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi – e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze.
Al Governo della cosa pubblica, poi, giacchè i padroni regnano od imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son men degni od i più atti a sgovernare, non volendo, i despoti, gente onesta a tali offici, ma disonesti com’essi, striscianti e corruttori parassiti coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali – ma spesso anche nelle repubbliche, ove gl’intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perchè modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del bene pubblico; e sovente pure nelle immense Società popolane succede lo stesso inconveniente; d’archimandriti immeritevoli. – I popoli son così facili ad essere ingannati!
Il principio repubblicano ha certamente fatto dei progressi in questi ultimi tempi, e non si deve disperare di vederlo finalmente prevalere. Ma ciò che succede nelle piccole società succede pure dovunque nella grande società umana, ove similmente l’intrigo e le esagerazioni fanno inciampare ad ogni passo cotesto bello andamento del progresso umano.
Parlate di Repubblica – Governo normale e naturale delle nazioni – e propagatela con successo – vi sortono subito i socialisti, i comunisti, gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano i risultati del vostro lavoro.
Parlate del vero e della ragione – non difficili a seminarsi nelle masse a dispetto della tirannide e del negromantismo – e compariscono gli atei, i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso.
Aggiungete a tutto ciò le gloriuzze di certi individui che vogliono essere chiamati grandi a qualunque costo – e vogliono far parlar di loro i giornali, fosse anche per un incendio del tempio d’Efeso alla Erostrato.
Tali considerazioni mi conducono alla conseguenza d’esser possibile nel mondo, non so per quanto tempo ancora, certi governi mostruosi, come quello del Borbone – che la tempesta rivoluzionaria del 60 rovesciò nella polve – e la peste pretina – compimento delle miserie e delle degradazioni umane.
Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e del 4 aprile le avean colme – giacchè la prigionia serve alla tirannide per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.
Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le autorità borboniche nella capitale della Sicilia – allo sbarco dei Mille a Marsala. – Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti, sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.
E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e Lia – la graziosa contadina dell’Agro Palermitano – le tre vestite a foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d’una notte di maggio.
Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale, potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.
Mentre però passavan le tre sotto il primo riverbero di Piazza reale, due occhi somiglianti a quei del serpente13 si fissarono sul bel volto di Marzia, e vi cagionarono l’effetto della scintilla elettrica – ma malefica, ma funesta come quella vibrata dalla cupa, nera partoriente delle tempeste sulle dominanti torri del feudo o della bottega pretina.
La coraggiosa fanciulla – che abbiam veduto alla testa degli eroi di Calatafimi in quella solenne pugna – fu padroneggiata da tal brivido in tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato d’ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina – a cui s’appoggiò subito – si sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.
«Celeste
13
Mi è successo in America, coricandomi sul campo colla testa su di un cespuglio erbaceo, di esser costretto a cambiar di giaciglio per l’apparizione di due luci nello stesso, che appartenevano certo ad un serpe.