Racconti politici. Ghislanzoni Antonio

Racconti politici - Ghislanzoni Antonio


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vado a battermi – rispose don Remondo con qualche imbarazzo – io vado a battermi per un principio… perchè ho veduto le atrocità che i tedeschi hanno commesso nella nostra povera valle… uccidendo tanti poveri innocenti…

      – Dite la verità, don Remondo – fra questi poveri innocenti non c'era qualcheduno che vi apparteneva… al quale eravate specialmente affezionato… qualche amico?..

      – Ebbene… sì!.. capisco… dove mira il tuo discorso… Tutti abbiamo le nostre debolezze… Noi preti si vive nell'isolamento… non abbiamo famiglia… Io amava il mio bracco come un amico… Alla fine non è un delitto portar un po' di affezione alle bestie che sono anch'esse creature di Dio! Cosa aveva fatto di male quel povero Fido?.. Vedendo quelle monture bianche e quelle sciabole, s'era messo ad abbaiare… Ed essi – bel coraggio! bella forza!.. pinf! panf! me l'hanno freddato con due palle nella testa!

      – E voi non l'avete più perdonata a quei mostri! – proseguì Gregorio – si capisce! Ma a quel ragazzo… vedete!.. a quel ragazzo i tedeschi hanno ucciso ben altro che un cane…! Hanno ucciso la persona che tutti al mondo si tengono più cara – la persona che egli ama, che egli adora senza averla conosciuta… una santa che prega per lui in paradiso… sua madre.

      – Ma dunque… – esclamò il prete – questo ragazzo che da cinque o sei anni ti sei tirato in casa… che tutti credono tuo nipote…?

      – Sotto voce… che nessuno ci senta! – sì!.. è lui – badate che io vi parlo come se foste il mio confessore – è il figlio della mia povera Martina!

      PARTE SECONDA

      Il Dovere

      I

      Fra le molte famiglie che in Lombardia arricchirono considerevolmente dopo le disastrose peripezie del 1848, una ve n'ha in Milano, la quale oggigiorno può competere, in fatto di dovizie, col patriziato più illustre di censi. La voce del popolo, che è voce di Dio, attribuisce a questa famiglia un patrimonio di cinque o sei milioni. – Al fortunato capitalista noi daremo un nome di nostra invenzione – lo chiameremo il signor Lorenzo De Mauro, senza defraudarlo di quel de pretensioso, che egli stesso volle assumere in una giornata di riabilitazione e di buon umore. – Cosa era il signor De Mauro prima del 1848? – Bisogna discendere molto basso per rintracciarne l'origine – noi non ci daremo la pena di calcare tutto il fango pel quale ha dovuto trascinarsi questo oro che oggi rifulge sulle alte cime della società. – E d'altra parte, a che gioverebbe? – Si tratta di un uomo ricco, di un uomo divenuto potente, che dà pane a tanti artisti, che presta danaro a tanti signori poveri, che ha regalato un pallio alla chiesa parrocchiale, che fuori di Milano, nel paesetto ove possiede, ha promesso di rifabbricare a sue spese il campanile. – Non si domanda il passato ad un presente così luminoso – e quand'uno osa farlo, tutti in coro rispondono: «che importa?.. sì… forse… ma pure… la invidia… la calunnia…» Noi dunque ci limiteremo a dire di questo passato solo quel tanto che importa all'intelligenza del nostro racconto.

      II

      La fortuna del De Mauro cominciò – per quanto dicono – con delle speculazioni sulla carta bollata. Questa istoria ha dello inverosimile. Più tardi vennero gli approvvigionamenti militari – poi gli appalti per la costruzione di alcuni fortini, quindi, in occasione della battaglia di Novara, il noleggio dei mezzi di trasporto, e di nuovo la fornitura delle vettovaglie all'esercito austriaco. – Dotato di molta avvedutezza e di poca coscienza, il De Mauro cominciò per bene la sua carriera. I tedeschi furono contenti di lui, ed egli naturalmente di loro – così, di appalto in appalto, il nostro uomo raggiunse la meta invidiata – divenne milionario. – Non spetta a noi rivedere le partite arretrate per verificare l'esattezza dei bilanci – poichè il governo austriaco fu pienamente soddisfatto!.. E d'altra parte, non è forse vero ciò che dicono molti, che i fornitori d'armata hanno mille occasioni di rubare onestamente? – La maggiore o minore onestà risulta dall'esito. Fatevi fucilare sul campo, e siete fior di canaglia; uscite salvi ed illesi coi vostri milioni, e avrete fama di industriale avveduto. L'onestà degli speculatori si misura a questa bilancia.

      III

      È ben vero che in sulle prime – all'improvviso bagliore delle nuove fortune – il popolo mormora e qualche volta calunnia. – Ma il signor De Mauro, co' suoi milioni, oppose una barriera alle dicerie di quell'infima classe donde era uscito. Un'altra società, un altro mondo si apriva per lui. – Egli sapeva che questa società doppiamente maligna, ma frivola altrettanto, che questo mondo avverso ai nuovi arricchiti, ma altrettanto facile alle transazioni, si poteva agevolmente conquistare e dominare colla servilità e coi favori. Stese la mano timidamente ai più prossimi – strisciò nelle anticamere, fu prodigo di inchini ai potenti. Qualche persona di rango cominciò a restituirgli le visite entrando nel suo palazzo per la porticina – più tardi il portone si aperse per tutti. – Ecco un uomo riabilitato, un uomo influente, un uomo di considerazione – Era egli felice? – Una stolta domanda – e voi che la proponete, osereste asserire di esser felici? – Quella porzione di male che si aggrava su ciascun individuo della specie umana, pel signor De Mauro era la coscienza del suo passato, era il non esser capace di dimenticare egli stesso ciò che la società, per lo meno in apparenza, aveva potuto dimenticare. Da ciò una inquietudine vaga, una perpetua diffidenza. Non osava persuadersi che qualcuno gli fosse amico. Un'occhiata meno franca lo metteva in sospetto – un freddo saluto lo irritava come un insulto. Odiava senza ragione. Delle voci sinistre giungevano qualche volta al suo orecchio, lo assalivano di fianco come pugnali. – Dopo la riscossa del 1859 passò dei giorni affannosi – il suo contegno divenne più umile, tentò sulle prime di eclissarsi. Nel fondo del cuore egli deplorò come propria sventura la cacciata degli austriaci – e nondimeno fu tra i primi a inalberare la bandiera nazionale sul terrazzo della sua casa, e a versare delle somme cospicue a pro della patria. – Erano le elargizioni della paura – ma il contante produceva un benefizio reale – il nuovo governo e il buon popolo accettarono quei tributi generosi come prove di patriottismo. – Nullameno – ci duole il dirlo – il signor De Mauro non cessò mai di rimpiangere segretamente i tedeschi. Le trepidazioni della sua coscienza erano meno sensibili prima del 1859 – ed ora, la libertà della stampa, ciò che egli chiamava la sfrenatezza del popolo, costituivano per lui una minaccia perenne. Senza questa minaccia, egli poco o nulla si sarebbe preoccupato delle nuove condizioni politiche del paese, fors'anche avrebbe diviso sinceramente le gioie della patria redenta nel solo senso che per lui era possibile: «governo nuovo, risorse nuove!»

      IV

      Per completare questo personaggio che avrà pochissima parte nel nostro racconto, ma che pure ne è in certo qual modo la causa efficiente, non ci resta che aggiungere alcuni particolari intorno ai suoi rapporti di famiglia.

      Nell'anno 1847, quando era povero e incerto tuttavia del proprio avvenire, il signor De Mauro condusse in moglie una vedova di circa venticinque anni, la quale gli portava in dote una rara bellezza, un cuore di angelo e circa seimila lire fra danaro e masserizie. A quell'epoca, pel De Mauro, era un matrimonio di speculazione; quelle seimila lire dovevano costituire la prima base della sua fortuna.

      Sarebbe malignità soverchia attribuire all'influenza di quel piccolo capitale l'affezione che il signor De Mauro portò sempre alla moglie. Egli non cessò mai di amarla anche in mezzo al tumulto degli affari ed al tripudio affannoso delle ricchezze. Si chiamava Serafina. Una donna di spirito mediocre, docile e mansueta come un agnello. Dopo aver condivise le angustie e le agitazioni del marito negli anni più disagiati, quella rapida e abbagliante prosperità che dal 1848 in appresso si era veduta sviluppare intorno a lei, le pareva miracolosa. Ne era quasi sgomentata – e quegli ingenui sgomenti formavano la gioia del marito. Il signor De Mauro, nelle sorprese di sua moglie, in quelle enfasi di maraviglia che toccavano i confini della paura, gustava doppiamente i propri trionfi. Egli era il giuocatore di prestigio che dopo aver gettata nel bossolo una moneta di rame, ne fa uscire gli scudi a centinaia fra lo stupore e l'applauso del pubblico. Per il signor De Mauro il pubblico era la moglie – la buona Serafina vedeva l'oro moltiplicarsi, crescere la agiatezza, e sempre, all'annunzio di nuove fortune, rideva e tremava per impeto


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