Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4. Giannone Pietro

Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4 - Giannone Pietro


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Vigne, e volle che insieme con quelle di Ruggiero s'osservassero. Ventuna ne abbiamo di questo Principe nel volume delle Costituzioni, le quali bisogna separare da quelle, che promulgò da poi Guglielmo II suo figliuolo, non confonderle, come han fatto i nostri Scrittori, che tutte le riputarono di Guglielmo I.

      Quella che leggiamo nel libro primo sotto il titolo de Usurariis puniendis, e che porta in fronte in alcune edizioni il nome di Ruggiero, ed in alcune altre quello di Guglielmo, non è, come si disse, nè di Ruggiero, nè, come credettero Andrea d'Isernia, Afflitto, e gli altri nostri Scrittori, di questo Guglielmo I. Fu quella promulgata molto tempo da poi da Guglielmo II suo figliuolo; perciocchè ivi si stabilisce, che tutte le quistioni, che s'agiteranno nella sua Corte appartenenti alle usure, s'abbiano nella medesima a diffinire e terminare secondo il decreto del Papa novellamente promulgato in Roma; intendendo Guglielmo II del decreto, che nel Concilio lateranense, celebrato in Roma da Alessandro III, fu stabilito contro gli usurai, inserito anche da Gregorio IX ne' suoi Decretali[49]; onde non potè esserne Autore Guglielmo I, poichè questo Concilio fu celebrato da Alessandro in Roma nell'anno 1180 come rapporta Antonio d'Agostino, o come i più accurati Scrittori nell'anno 1179, nel qual tempo era già morto Guglielmo il Malo, che finì i giorni suoi, come si è veduto, fin dall'anno 1166, e regnava in Sicilia Guglielmo II, il quale tutto diverso dal padre, abbominando l'avidità degli usurai, ed i loro detestabili acquisti, volle che le quistioni d'usure si terminassero non già secondo la ragion civile de' Romani, ma secondo i canoni del Concilio di Laterano. Merita riflessione che in questi tempi i delitti d'usura erano conosciuti da Giudici secolari, nè apparteneva la cognizione de' medesimi agli Ecclesiastici, come pretesero da poi, avendo solo Guglielmo comandato che dovessero i suoi Giudici terminar tali controversie non già colle leggi romane, ma secondo quel decreto, il quale senza questa Costituzione non avrebbe potuto obbligare i sudditi dei suoi Regni, non avendo ancora i regolamenti ecclesiastici acquistato ne' Tribunali quella forza ed autorità che da poi col lungo uso acquistarono ne' nuovi dominj de' Principi cristiani; ma perchè s'osservassero nel Foro, ed in vigor de' quali le liti si decidessero, era bisogno che il Principe lo comandasse.

      Parimente l'altra Costituzione, che leggiamo nel medesimo libro primo, sotto il titolo, Ubi Clericus in maleficiis debeat conveniri, al II Guglielmo, non già al I, dee attribuirsi. Fu quella insieme con un'altra, che si legge nel libro terzo sotto il titolo De adulteriis coërcendis, stabilita da Guglielmo II a richiesta di Gualtieri Arcivescovo di Palermo[50], colla quale furono, intorno a' delitti, le persone de' Cherici del suo Regno, sottratte dalla giurisdizione laicale, ordinando per quella, che la cognizione de' medesimi, per quanto s'attiene alle loro persone, sia della Chiesa, e che debbano da lei esser giudicati secondo i canoni e secondo il dritto ecclesiastico; eccettuando solamente i delitti di fellonia e quelli che per la loro atrocità spettassero alla Maestà del Re, ne' quali volle che la cognizione fosse della sua Corte.

      Sono sì bene di Guglielmo I le altre, che seguono nell'istesso libro primo sotto vari titoli collocate. La prima si legge sotto il titolo 59, per la quale vien proibito agli Ufficiali esercitar per altri le loro cariche, togliendosi a' M. Giustizieri ed agli altri Giustizieri minori il poter per mezzo de' loro Vicari esercitare i loro Uffici, imponendo con sommo rigore pena capitale a chi contravenisse a tal divieto. La seconda è sotto il titolo De juramentis non remittendis a Bajulis, ove punisce con pena pecuniaria d'una libbra d'oro gli eccessi de' Baglivi, i quali per favore o per denaro rimettessero i giuramenti, ed altre pruove nelle liti, che i Giudici sentenziassero doversi prestare. La terza sotto il titolo De Officio Magistri Camerarii, fu stabilita per togliere le confusioni tra gli Ufficiali, e distribuisce a ciascuno d'essi ciò che sia della sua incumbenza. Vuol perciò che i Maestri Camerari possano conoscere delle cause civili solamente, e non delle feudali, che s'appartenevano alla Gran Corte, ed a' Gran Giustizieri; e diffinire le cause che nascessero tra Baglivi, e Gabelloti alla sua giurisdizione soggetti, e che ad essi si riportassero le appellazioni delle cause decise da' Giudici ordinari in presenza de' Baglivi, li quali possano confermare, o rivocare i loro decreti o sentenze; siccome il dritto loro detterà: da' quali poi possa appellarsi, non già come prima al Gran Giustiziero, ma al Re solamente.

      La quarta, posta sotto il medesimo titolo, ordina ai Maestri Camerari delle Regioni a se commesse che col Consiglio de' Baglivi mettano essi l'assise delle cose venali per ciascuna città e luoghi a se soggetti.

      La quinta che si legge sotto il titolo de Officio Secreti, è locale, e riguarda la provincia della Calabria, per la quale è stabilito che in quella provincia l'Ufficio di Secreto e di Questore, per l'avvenire s'eserciti da Camerari della medesima. E nella sesta che siegue, si dà particolare incumbenza a' suddetti Secreti e Questori d'invigilare a' tesori che si ritrovassero per incorporargli a comodo del Fisco, e di conoscere sopra i naufragj che accadessero, perchè essendo morti i padroni, nè lasciando legittimi successori, possano le robe appropriarsi al Fisco. Come ancora dà loro incumbenza d'invigilare e conoscere sopra i beni vacanti di coloro, che morendo senza far testamento non abbiano successori legittimi, ordinando che la terza parte del prezzo delle robe ereditarie si dispensi ai poveri per l'anime de' defunti, e tutto il resto s'applichi al Fisco.

      La settima, posta sotto il medesimo titolo, comanda a' Giustizieri, Camerari, Castellani e Baglivi che siano solleciti in prestar ogni aiuto e consiglio a' suddetti Secreti e Questori in tutto ciò, che concerne il comodo della sua Corte.

      L'ottava che si legge sotto il titolo, De praestando Sacramento Bajulis, et Camerariis, merita tutta la riflessione; poichè in essa si prescrive a' Camerari ed a' Baglivi il modo di dover amministrar giustizia ai suoi sudditi. Comanda che debbano amministrarla secondo le sue Costituzioni e quelle di Ruggiero suo padre, ed in difetto di quelle, secondo le Consuetudini approvate ne' suoi Stati, e finalmente secondo le leggi comuni, longobarde e romane; onde si convince, che a' tempi di questo Principe le leggi longobarde erano in tutto il vigore, ed osservanza in questo Reame, e riputate leggi comuni, non meno che le romane. Quindi avvenne, che le prime fatiche, che abbiamo de' nostri Giureconsulti fossero indrizzato alle medesime, e che Carlo di Tocco, contemporaneo di questo Guglielmo, da cui nell'anno 1162 fu fatto Giudice della G. C.[51], si prendesse il pensiero e la cura di commentarle: nel che fare servissi delle Pandette ed altri libri di Giustiniano, non perchè questi avessero acquistata forza alcuna di legge in questo Regno, ma perchè non si riputassero le longobarde cotanto barbare ed incolte, giacchè molte di esse eran conformi alle leggi delle Pandette, le quali avendo tirato a se lo studio di molti, questi cominciavano ad aver in disprezzo le longobarde. Nè Guglielmo intese altro per le leggi comuni romane, se non quelle, che prima d'essersi ritrovate le Pandette in Amalfi, erano rimaste come per tradizione presso i nostri provinciali; poichè insino a questi tempi, se bene nell'altre città d'Italia, come che pubblicamente insegnate nelle loro Accademie, cominciassero ad allegarsi nel Foro; nulladimanco in queste nostre parti, non essendovi ancora pubbliche Scuole introdotte, se non a' tempi di Federico II, non solo non aveano acquistata autorità alcuna di legge, nè s'allegavano nel Foro, ma nè meno erano insegnate ed esposte come in Bologna e Milano e nell'altre città d'Italia: e le liti per lo più decidevansi secondo le leggi longobarde, siccome è chiaro da quelle due sentenze rammentate da noi, e rapportate dal Pellegrino, una in tempo di Ruggiero, l'altra di Guglielmo II. Ed è ciò così vero, che non era lecito nè meno ricorrere alle leggi delle Pandette in difetto delle longobarde; come è chiaro da Commentari del medesimo Carlo di Tocco[52], ove dimandando se, siccome il figliuolo succedeva alla madre, così potesse ancor la madre succedere a' figliuoli: dice che le leggi longobarde di ciò niente stabilirono, onde la madre come cognata dovrebbe escludersi, poichè secondo quelle succedono i soli agnati; e che perciò vi sarebbe bisogno d'una nuova legge, che l'ammettesse alla loro successione, non altramente di quello praticavasi presso i Romani, appo i quali perchè la madre potesse succedere, fu mestier che il Senatusconsulto Orficiano lo stabilisse. Che bisogno dunque vi sarebbe stato di questa nuova legge, se s'avesse alla legge de' Longobardi potuto supplire colle leggi delle Pandette? Ne' tempi dunque di questo Guglielmo le leggi comuni de' Romani non eran quelle, ch'eran comprese nelle Pandette, ma quelle, ch'erano rimaste presso i Popoli, che dopo estinto l'Imperio romano, le ritennero più tosto come antiche costumanze, che per leggi scritte, non essendo stati i libri di Giustiniano


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<p>49</p>

. Decret. lib. 5 tit. 16 cap. 6.

<p>50</p>

. Tutini degli Ammir. pag. 41.

<p>51</p>

. Top. de orig. M. C. c. 10.

<p>52</p>

. Carol. de Tocco in l. si sorores 25 verb. si propinqui in fin. de succes. l. 2 tit. 14.