Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2. Alessandro Manzoni
che soccorreva, nè v'è più speranza ch'ei si possa rialzare. Le preghiere di Renzo gli vanno all'anima, ma la morte già vicina lo ha disteso su quella terra a cui sarà ricongiunto fra poco. Corri, egli dice coll'ultimo avanzo della cadente sua voce, corri da Lucia e qua la conduci, prima che venga la chiamata di Dio. Il povero Renzo vola alla capannetta della fanciulla, che con passi vacillanti, pallida pallida, lo segue, finchè giungono a quei due moribondi, che aspettano una sì diversa mercede. Ecco gli accusatori, il testimonio ed il reo: il Giudice sta più in alto, e fra pochi minuti l'irrevocabile sentenza sarà pronunciata. Gran Dio, non entrare in giudizio co' tuoi miseri servi! Noi non osiamo proceder più oltre, che l'ingegno ne cade innanzi a tanto orrore e a tanta pietà: ma che non avrebbe saputo fare il Manzoni? Gli effetti della Grazia erano già stati descritti nell'Innominato; qui rimaneva a mostrarci la disperata morte del reprobo, e il quadro riusciva perfetto, perchè lì presso ne consolava la placida dipartita del giusto. Una maledizione su gli sposi e sopra sè stesso è uscita da Rodrigo, padre Cristoforo ha sciolto il voto, e benedetti i due giovani. Un profondo silenzio è succeduto a quelle parole: tutto è finito. Si separino quei due corpi, che più non saranno vicini in eterno. Guai a chi non intende la muta lezione che s'innalza dalla polvere di quella capanna! È impossibile che i lettori non si dolgano pensando al maraviglioso partito che la mente e il cuore del Manzoni avrebbero tratto da tanta passione: ma anche qui è sempre necessario ripetere, che senza mutare l'orditura del romanzo non poteva arrischiarsi una scena sì viva. La narrazione degli avvenimenti successivi dopo quell'impeto d'affetti non era più tollerabile, ed ivi stesso, davanti a quel letto di morte, Renzo e Lucia doveano rinnovare il loro giuramento, abbandonata ogni più minuta conclusione alla fantasia de' lettori»70.
Nell'ottobre del '27 mentre a Milano usciva alla luce il compimento di questi discorsi, Niccolò Tommaseo veleggiava per l'Adriatico, e parte negli ozi della traversata, parte in mezzo alle isole della sua Dalmazia e nel porto d'Ancona fece una quantità di postille71 sopra un esemplare de' Promessi Sposi donatogli dal Manzoni. Alcune sono in lode; le più in biasimo e non senza acrimonia72. Il Manzoni, raccontata la favola dello «scartafaccio», soggiunge: «Ed ecco l'origine del presente libro». Il Tommaseo chiosa: «Questo non iscusa la bugia. Si dirà che il Romanzo è tutto una bugia. Io rispondo che mentire non è mai bello». Ritiene «che più naturale sarebbe stato, invece di villani73, scegliere una famiglia di città, povera, ma gentile, chè anche allora era modo di dar risalto anche ai quadri campestri». Trova «che don Abbondio in questo romanzo fa troppa figura, occupa troppo spazio»; gli sembra «scarso di sovrane bellezze tutto ciò che» nel secondo tomo «appartiene al cardinal Federigo e all'Innominato»; e giudica si convertisse «troppo rabbiosamente»74. Del resto, a mettere in evidenza i biasimi tutti, bisognerebbe trascrivere le postille in grandissima parte, e con le postille l'ostico giudizio che inserì nell'Antologia75; dove la lode è sempre misurata, il desiderio di censurare vivissimo sempre; e la lode rivolta non al libro, ma all'uomo, «grande e per cuore e per ingegno», «ingegno mirabile», «sovrano ingegno», «ingegno divino», «uomo divino», «genio e cuore apertissimo», «il giusto solitario», «il poeta del meglio», che si era perfino «abbassato a donarci un romanzo»; divinizzazione76 che dispiacque ai Leopardi, «perchè ha dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli».
Il Tommaseo a mano a mano andò temperando e modificando quel severo giudizio, e quando nel '43 ristampò ne' suoi Studi critici il vecchio articolo dell'Antologia molto vi tolse, non solo per condensar meglio il pensiero, ma anche per renderlo meno aspro e meno reciso77. V'aggiunse un accenno alla lingua adoperata dal Manzoni ne' Promessi Sposi; punto che fin allora non aveva toccato altro che in una lettera confidenziale a Cesare Cantù, scritta da Parigi l'11 gennaio del '37. Gli dice: «Godo che il Manzoni pensi a ristampare il romanzo, egli stesso; e tanto meglio se con mutazioni e con giunte. Non ponga indugio; non badi a' suoi scrupoli troppi, nè agli sdottoramenti dei consiglieri immancabili, de' quali è provveduto appunto chi non ne ha bisogno. Lasci stare ogni cosa, muti solo qualche parola o qualche modo, se vuole: e anche questo con carità, senza spellare vivi quel Renzo e quella Lucia»78. Le parole aggiunte al vecchio scritto son queste: «Nella dicitura senti meditazione e cura continua. Io non dirò se per tal cura Manzoni sia giunto a veramente italiana proprietà di linguaggio e snellezza di stile: ma certo è che ne' modi lombardi e francesi o non acconciamente toscani della prima stampa, quanto nelle docili e felici (sebbene non sufficienti) correzioni della stampa recente, è copia grande d'ammaestramenti agli amatori dell'arte»79. Il primo giudizio nella sostanza non lo mutò mai. Già vecchio, a un amico, che voleva scrivere intorno a' Promessi Sposi dava per consiglio: «Com'egli» [il Manzoni] «senta e ritragga la natura visibile è altresì da notare; il cielo, i monti; gli alberi, le acque; i suoni, i colori; se non che alla freschezza del sentimento e alla maestria dello stile, in quanto lo stile è concetto, non direi corrispondere sempre, anzi di rado, la freschezza e franchezza dello stile in quant'è lingua e armonia». Poi soggiungeva: «All'arte proprio direi, che nell'esame di tale lavoro non sia da dare peso se non in quanto essa è moralità». Voleva «della lingua e del numero» de' Promessi Sposi studiasse «quel che c'è di straniero, d'incerto, d'improprio, di prolisso senza necessità di chiarezza»80.
Giambattista Bazzoni81, uno degli emuli, volle egli pure dire la sua. «I Promessi Sposi s'udirono annunziare tanto tempo innanzi che apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di ricevere dalle mani abilissime del loro valente autore quella forbita, lucente e veramente nuziale acconciatura di cui egli seppe adornarli. V'ha in quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni fine, vere, calzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine profonda del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile, ma universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi d'intelligenza; è un complesso insomma di quadri affatto nuovi e sublimi. È vero però che vi si rinvenne un lato vulnerabile come il calcagno nel fatato corpo d'Achille; ma però le saette ad essi scagliate dai nostri Paridi non li ferirono sì addentro da togliere loro la vita, che durerà anzi sempre robustissima».
Ombra di Giambattista Bazzoni, che ti aggiri tra le rovine dimenticate del tuo Castello di Trezzo, metti il cuore in pace: non ebbero da quelle saette neppure scalfita la pelle; del resto, così dura, che sfida i secoli!
Torino, 27 marzo 1905.
XI.
Fuga di Don Rodrigo
Ma quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi, quante penne, e tante lingue, quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante bocche, quante lingue, e finalmente tante orecchie, quanti occhi, lingue e bocche (debb'essere una bella dea), questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla Terra in un momento di collera; veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo e nasconde il capo tra le nuvole, che vola di notte per l'ombra del cielo e della terra, nè mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli dei tetti, o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto e il vero indifferentemente, costei aveva già, prima della notte, diffusa nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno. Per fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato formole che, a dir vero, appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è l'allegoria, e singolarmente quella già nota e consecrata delle antiche favole: perchè quando si vuol fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne un'altra: così fatto è l'ingegno umano quando è coltivato con diligenza. Siccome però a voler cavare dalle allegorie il senso vero ed ultimo, quello che si vuol trasmettere, è necessario in ultimo pensare alle cose che le allegorie fanno intendere, così non lasceremo di dire che tutti gli abitanti del contorno, che erano convenuti
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E altrove: «Vogliamo almeno terminare con un voto, che è certo comune a tutta l'Italia. Perchè il Manzoni, così grande poeta, non ha intramesso alla sua prosa alcun verso? Perchè non ha egli seguito l'esempio del suo Goethe e di tanti altri illustri romanzieri, che ne aggiunsero questo diletto? La materia di frequente si prestava volentieri alla poesia… Chi non vorrebbe ascoltare il divoto cantico e le
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Fin dal 1890 ne dette un saggio il prof. Emilio Teza [
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Eccone un saggio: «È affettato – Pesante – È da buffone: tuono che Fautore assume talvolta – È brutto – È duro – Non mi piace – Miseria – Piccolezza – Cattivo – Inezia – Importuno – Non va – Quanta roba! – È goffo – Mal detto – Pedantesco – Affettazione – Pare un goffo dialogo di Goldoni – Rettoricume – Bassezza – Evviva i soliloqui! – È vecchiume – È un guazzabuglio questo periodo – Malissimo detto – Inezia grande – Lungherie misere – Falso – È ridicolo – È da retore e mostra la stanchezza dell'autore – Affettato e prolisso – Gretto e stracco»; e giù di questo tono, con mano sempre prodiga.
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I critici si trovarono concordi nel biasimare il Manzoni d'avere scelto a protagonisti due operai; all'infuori però del Sismondi, del Pezzi, del Giannone e di pochi altri, tra' quali Giovita Scalvini, che scrisse: «Ha scelto Renzo e Lucia per isvergognare e ridurre al niente i Rodrighi e gli Egidii; per additarne come l'occhio di Dio, dinanzi il quale cessa ogni disuguaglianza, sappia scernere infra la turba gl'
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Nel dar conto nell'
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L'
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Singolare è questa lettera del Tommaseo al Vieusseux, scritta da Milano il 12 novembre del '26: «Manzoni forse per la primavera vegnente verrà con la famiglia a Firenze… Del resto, se egli venisse a Firenze, vedreste un uomo che dall'assenza di ogni singolarità è reso agli occhi d'ognuno che non gli dissomigli, affatto singolare e mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro, ma impresso di quella bontà che l'ingegno, non che guastarla, rende più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco giunge come un vezzo alle parole, che paiono escir più mature, più desiderate: un vestito dimesso, un piglio semplice, un tuono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui s'avvicina… Questo è l'uomo direste, il cui nome sarà simile di qui a mill'anni, adorato, com'io venero oggi il suo volto. Questo è l'uomo che in ogni via che calcò impresse un'orma indelebile; che ha divinizzata la tragedia, che ha insegnata agl'Italiani la vera via della storia; che ha fatto il romanzo la lettura del Genio e della Virtù; ch'ebbe amici i più buoni del secol suo; che fu pio, semplice, generoso; che trasse il suo genio dal cuore: e potreste aggiungere (questo è forse il maggiore degli encomii) che fu visto più d'una volta piangere sulle sventure degl'infelici».
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Il Rigutini ristampò il vecchio articolo dell'
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79
Tommaseo N.,
Cfr.
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Tommaseo N.
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Nacque a Novara il 12 febbraio del 1803; si laureò in legge a Pavia; presa la carriera della magistratura, al pane onorato del suo forte Piemonte e de' suoi vecchi Re preferì quello dell'Austria, e morì il 9 ottobre del 1850, consigliere dell'I. e R. Tribunale criminale di Milano.