L'Ultima Opportunità. Maria Acosta

L'Ultima Opportunità - Maria Acosta


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e un’altra dietro di essa: Fabrizio era sicuro che stavano per raggiungere Stanislao.

      -“Dai, ragazzi. Dai!”

      Dopo pochi minuti costeggiarono un’isola più grande delle altre. La chiamata di Stanislao ora si sentiva benissimo, ancora non potevano vederlo però sapevano che era molto vicino. Dopo un po’ distinsero una linea di luci che delimitava la costa e un’ombra scura nel mezzo. Era Stanislao!, pensò Fabrizio. Ma cosa stava succedendo? Sembrava che un miliardo di lampadine lo stessero circondando, lampadine molto bizzarre giacché non si fermavano mai, si accendevano e si spegnevano all’improvviso. Le balene non sapevano come agire, sembrava che Stanislao fosse nei guai. Perché non era uscito da lì? Cosa significavano quelle luci? E allora dovevano prendere una decisione. Un’idea ce l’aveva, forse avrebbe potuto funzionare, pensò Fabrizio, e la comunicò ai suoi amici. Le balene si disposero a ventaglio, formando un semicerchio; piano piano si avvicinarono e, nel momento in cui giunsero a pochi metri dalla giovane balena maschio, si immersero e tornarono subito in superficie. L’acqua che spostarono i grandi mammiferi marini risalendo in superficie fu sufficiente a far fuggire a gambe levate tutti quegli sciocchi che si trovavano sulle fondamenta degli Schiavoni e nei dintorni di Piazza San Marco, a scattare foto con i telefonini al povero Stanislao.

      Poi, tutti insieme se ne andarono allontanandosi da quella bella città. Quando finalmente si trovarono ormai lontani, in salvo, Stanislao riuscì a parlare.

      -“Andremo anche noi alla guerra?”

      -“Cosa?” –chiese Fabrizio.

      -“Ho sentito che c’è guerra ovunque, e che molti animali si sono alleati con le macchine per sconfiggere gli umani. Io voglio andare alla guerra.”

      -“Sei impazzito? La guerra non è un gioco. È qualcosa di brutto, spezza le famiglie, produce tristezza e miseria. Non si può andare in guerra con questa allegria. Non è bella. La sofferenza che produce la guerra è inimmaginabile. Come ti è venuta quest’idea?”

      -“Ho sentito alcuni pesci che ne parlavano mentre ero accecato da quelle luci che non si fermavano mai. E sembravano molto convinti di voler lottare e far del male agli umani. Raccontavano un sacco di cose terribili, anche sull’atteggiamento degli uomini verso la nostra razza. Io non ne sapevo niente. Ma se fosse vero....”

      -“È vero. L’uomo, a volte, ha avuto un atteggiamento molto cattivo con noi balene, ma altri ci hanno difeso.” –rispose Fabrizio accorgendosi che le altre balene stavano pensando la stessa cosa di suo nipote. Avrebbe cercato di farli riflettere sulla guerra e sulle sue conseguenze.

      –“Pensate alla sofferenza delle vostre famiglie se non doveste più ritornare da loro, pensate alla nostra fragile vita, anche se siamo grandi come palazzi non siamo così forti e indipendenti per far fronte alle armi moderne. Non siamo topi né conigli, che hanno un sacco di cuccioli ogni volta che la femmina è incinta; noi siamo una razza molto fragile e possiamo sparire in qualsiasi momento. Abbiamo il dovere di sopravvivere.”

      -“E allora? Dobbiamo restare qui senza fare niente mentre gli altri animali mettono a rischio la loro vita?” –chiese Stanislao sempre più fissato con la sua idea.

      Fabrizio lo guardò con tristezza. Lui era stato perseguitato dagli uomini molte volte ed era riuscito a sopravvivere a stento; nel suo corpo alcune cicatrici parlavano della sua lotta contro gli strumenti di morte degli uomini. Stanislao era giovane, era la prima volta che faceva questo viaggio e non conosceva ancora i pericoli che il mare nascondeva, ma Fabrizio lo capiva lo stesso. Anche lui avrebbe condiviso il suo pensiero molto tempo fa, ma adesso… E così Fabrizio raccontò la sua storia ai suoi amici. Finalmente capirono: avrebbero fatto tutto il possibile per aiutare il resto degli animali marini, li avrebbero portati in nascondigli dove nessuno li avrebbe potuti trovare, avrebbero avuto cura di loro se si fossero ammalati, ma non potevano fare nient’altro.

      Finora, Venezia era stata risparmiata dalla pazzia della guerra soltanto perché il generale Valvo si trovava lì e, nella sua prepotenza, si considerava un doge che poteva tenere in pugno tutti quelli che abitavano nella città. E questo gli piaceva talmente tanto che aveva deciso di fare del Palazzo Ducale la sua dimora. Era da un pezzo che percorreva i corridoi e le stanze dello storico edificio, da solo. Gli piaceva il rumore delle sue gambe metalliche sul pavimento luccicante, le tende ricamate, i letti antichi, i dipinti dei grandi artisti del passato, le statue... immaginava come sarebbe stata la sua vita ai tempi in cui Venezia era il centro della vita culturale e politica d’Europa; gli sarebbe piaciuto conoscere i galantuomini e le dame, gli artisti, e tutti quelli che popolavano Venezia nei suoi tempi di grandezza. Duca e gli altri erano all’interno della Basilica e negli altri edifici che circondavano il Palazzo Ducale. Quell’edificio era il suo feudo privato, senza il suo permesso nessuno poteva entrarci. Il suo esercito di androidi era schierato intorno al palazzo e proteggeva la sua intimità. Aveva percorso tutte le stanze, attraversato il Ponte dei Sospiri e visitato l’antica carcere. E vabbé, pensò, sarebbe ritornato a svolgere la sua funzione originaria.

      Chi avesse potuto vedere Valvo in questi momenti e ascoltarne addirittura i pensieri, avrebbe potuto dirgli che si sbagliava di grosso: sembrava più una sorta di piccolo Napoleone (almeno per quanto riguardava l’intelligenza, giacché fisicamente era più alto) che un sovrano assoluto eletto da un ristretto collegio di nobili, così come succedeva con il doge.

      Pensava di essere l’ultimo dei conquistatori della Serenissima, da sempre considerata simbolo del trionfo degli uomini sulla Natura, un vero affronto al mare, costretto ad ospitare nelle sue immensità un’intera città, potente e arrogante, e ad invaderla con la sua acqua solo in alcuni momenti dell’anno. Valvo aveva preso dalla meravigliosa biblioteca del Palazzo Ducale un libro sulla storia della città, sulle sue origini e sugli uomini che l’avevano governata con mano ferma ma con giustizia. Ma questo proprio non l’aveva capito e pensava di essere un vero discendente del primo doge Paoluccio Anafesto. Un’altra cretinata di un personaggio prepotente, arrogante e senza scrupoli che non capiva minimamente quali fossero state le autentiche funzioni del doge, tutt’altro che un sovrano assoluto così come credeva l’androide.

      Quello che lui non sapeva era che Venezia stava a cuore agli animali poiché tra alcuni dei suoi simboli figura il Leone, emblema della potenza sulla Terra, e i gabbiani, che hanno sempre difeso le loro case e i loro tetti dall’alto, perlustrando in ogni epoca per avvistare i pericoli che si nascondevano dietro l’orizzonte piatto. Ma il generale questo non lo sapeva, oppure non gli dava l’importanza che meritava. E proprio per questa sua arroganza che, al momento giusto, sarebbe stato sconfitto.

      All’interno della Basilica di San Marco, Duca il maiale, anche se non lo faceva vedere, era molto arrabbiato. Valvo l’aveva mandato con gli altri animali, come se lui fosse uno qualunque. Il maiale credeva di essere al di sopra di tutti e questo atteggiamento dell’umanoide non gli era piaciuto.

      Sui tetti della città, i gabbiani facevano del loro meglio e parlavano nella lingua che capivano soltanto loro. Era da giorni che non scendevano a terra e cercavano di sopravvivere lontani dalla follia che aveva invaso Venezia. I colombi, ritenuti di solito uccelli docili e senza cervello, erano diventati le loro spie e raccontavano ai gabbiani tutto quello succedeva in laguna.

      In città c’erano anche altri animali: i leoni. Di pietra ce n’erano una moltitudine: sulle pareti, nei sottoportici, sulle scale, nella Basilica e nel Palazzo Ducale. Ma ce n’erano altri, quelli dell’Arsenale, che erano diversi. Grandi e nobili, sorvegliavano da secoli questa parte della città e si diceva che non fossero sculture bensì veri leoni trasformati in statue che si sarebbero svegliati e sarebbero ritornati ad assumere la loro autentica natura nel momento in cui l’indipendenza della città e dei suoi cittadini fosse stata minacciata da un pericolo molto grande; in quel momento, i leoni dell’Arsenale, creature belle ed enormi, stavano per risvegliarsi. Qualcosa di importante stava per accadere. Un gabbiano sceso dal cielo si posò sulla testa del leone più maestoso, quello seduto sulle zampe posteriori. Il gabbiano, con cura, mise il becco sulla testa del leone e cominciò a dargli qualche piccolo colpo. L’uccello sentì un rumore profondo, quasi impercettibile: quando la statua cominciò a muoversi, a vibrare, come se fosse sul punto di spezzarsi, si resse forte. E, all’improvviso,


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