Oltre Il Limite Della Legalità. Alessandro Ziliotto

Oltre Il Limite Della Legalità - Alessandro  Ziliotto


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che tutto quello che mi stava intorno mi faceva schifo. C’erano persone che sembravano felici di vivere in quelle condizioni. Ma com’era possibile? Forse non ero adatto per fare lo sbirro. Terminata la conversazione con lei, buttai la borsa nell’armadio e scappai fuori. Dovevo respirare, dovevo vedere che quello non era ciò che mi aspettava, come minimo, per i prossimi quattro anni. Presi la macchina e dopo aver girovagato per diverse ore, mi trovai dov’ero ora; ad osservare quel groviglio di strade delimitate dalle centinaia di lampioni dell’illuminazione pubblica, animate dal serpeggiare delle automobili con i loro bagliori gialli e rossi. Era così bella guardarla da lassù e allo stesso tempo, strana. Mi trasmetteva una sensazione indescrivibile, come se non facessi parte di tutto quel mondo. Mi sentivo un estraneo e di quel mondo non ne condividevo nulla, ma non riuscivo a fare a meno.

      Non riuscivo a pensare a nulla, o forse pensavo troppo. Poggiai il fondoschiena a terra e lasciai che quel meraviglioso paesaggio lentamente divenisse sempre più sfocato e che l’alcool m’accompagnasse tra le braccia di Morfeo sino all’indomani. Il rum m’aiutava a sentirmi ancora più male, ogni sorso che facevo m’offuscava sempre più la vista, strappando dalla margherita della felicità, uno ad uno, i suoi petali. Mi sentivo un verme, inutile e insensato. Se avessi avuto una pistola magari mi sarei anche sparato, o almeno ci avrei pensato seriamente, ma per mia fortuna, l’unica cosa che avevo tra le mani era una bottiglia di buonissimo rum.

      “Che diavolo farò domani? Come cazzo andrò avanti? Beh, domani è un altro giorno e per gli altri si vedrà.” Questo mi ripetevo tra me e me, attendendo una risposta che ovviamente non c’era.

      Ogni pensiero era seguito da un sorso, e questa era l’unica soluzione che riuscivo a darmi. Il sonno m’assalì, o forse era il corpo che diceva basta al contenuto del vetro, fatto sta che i sensi m’abbandonarono, lasciandomi dondolare nelle onde dell’ignoto sino al giorno seguente.

      A farmi ritornare tra la gente comune o alla vita reale, come si poteva meglio dire e come accadeva ogni dannato giorno nell’ultimo mese, erano i raggi del sole, i quali cominciarono a pizzicarmi le palpebre e a non farmi più riposare. Aprii gli occhi, se così si poteva definire quel misero gesto di mettere a fuoco il paesaggio circostante e strisciare sino alla prima zona d’ombra, dove speravo di continuare per qualche altra oretta il sonnellino appena interrotto; anche perché l’orologio mi diceva che erano solamente le sei della magnana e arrivare a mezzodì sarebbe stata maledettamente lunga. L’unico posticino utile era sotto la chioma di alcuni alberi, lì di certo non avrei avuto problemi, almeno ci speravo. Presi per il collo la mia amica, e sino a che non mi fece chiudere nuovamente gli occhi, continuai a parlargli. Quel liquido era l’unico mio conforto, l’unica cosa che riusciva a non farmi ragionare e conseguentemente, sebbene lentamente mi stesse uccidendo, mi faceva rimanere in vita: per me era l’acqua dell’eterna giovinezza. Ogni volta che desideravo far cessare il battito del mio cuore, c’era lei che mi fermava, che mi ascoltava, che mi rincuorava, che mi toglieva le energie.

      Non so che ore erano, quando la mia attenzione fu catturata da un vociare lontano che si faceva sempre più forte. Ero appoggiato con la schiena all’albero e sebbene inconsciamente avvertivo la possibilità che quelle persone ce l’avessero con me in qualche modo, non riuscivo, anzi, non avevo voglia di aprire gli occhi e interessarmi alla cosa. Rimasi a gongolarmi, accarezzato dalla leggera brezza cresciuta da qualche minuto che andava a graffiarmi la pelle, dall’afa che cominciava ad aleggiare nell’aria. Mi ero quasi riaddormentato quando un violento calcio mi colpì al volto. Non ebbi nemmeno il tempo d’aprire gli occhi che venni raggiunto nuovamente da un colpo all’addome. Trascorsero solo pochi secondi e un altro calcio mi raggiunse alla bocca dello stomaco lasciandomi senza fiato, procurandomi istantaneamente delle forti colate di vomito. Cercai di mettermi in sesto e di reagire, ma non ce la facevo, ero lì, carponi, a sputare a terra. Ebbi il tempo solo di alzare la testa e scorgere tre ragazzi correre via verso la strada e successivamente udire lo stridio delle gomme allontanarsi. Solo una cosa mi rimase colpita di quei giovani; uno indossava un giubbino dell’Harley Davidson arancione e nero. Sentivo il dolore delle percosse ricevute, ma non era tanto per il dolore fisico, che sarebbe scomparso da lì a pochi giorni, ma quello spirituale. Accettai quell’avvenimento come un segnale, un evento dal quale dovevo riflettere e ripartire. Non tanto perché ero stato scoperto, ma perché non avrei dovuto lasciare nulla al caso e se l’avessi fatto l’avrei pagata a malo modo. Ora potevo solamente gustare il sapore dolciastro del sangue in bocca. Non era la prima volta che mi capitava di provare quella sensazione, ma il modo in cui si era sviluppato tutto, era alquanto singolare ed eccitante. Per quanto patetico possa essere stato in quel momento, mi sentivo bene, più o meno. Mi misi gattoni e senza esagerare con la forza, racimolai l’impasto che avevo in bocca, sputandolo a terra. La mandibola mi fece vedere i sorci verdi, ma almeno non sentivo tutta quella poltiglia tra i denti. I fili d’erba affioravano dalle insenature delle dita, e l’umidità condensatasi durante la notte sul terreno, cominciava a bagnarmi il palmo delle mani, filtrando anche dal tessuto dei jeans, sulle ginocchia. Contrassi un po’ le gambe e con un leggero slancio mi misi a sedere. Tutto quello che potevo fare ora, era ridere. Me l’ero meritato, e con tutta sincerità, se mi fossi trovato nella situazione di quei ragazzi, credo che avrei adottato lo stesso comportamento, o forse anche peggio. E nonostante il bruciore, mi sentivo fortunato. Tutto quello mi faceva sentire vivo. Provavo dolore. La carne e le ossa trasmettevano impulsi al cervello e questo non lì assorbiva con indifferenza. Il dolore, il bruciore alla bocca e il sapore dolce del sangue misto a quello di vomito, mi faceva sentire parte di quel mondo che stava ai piedi di quella collina. Una cosa mi avevano fatto capire quei ragazzi, anche se me l’avrebbero pagata alla prima situazione utile, che dovevo rialzarmi per non finire più in basso di quanto non stessi ora, perché al baratro non c’era mai fine.

      

      

      

      

      Mi alzai. I passi incalzavano precipitosi sotto le suole delle scarpe come i pensieri nella mia mente. Riflettevo e ipotizzavo una qualsiasi soluzione o direzione che potessi intraprendere. Sino a ora ero sempre stato una persona rispettosa della legge, sconfinando magari a volte di qualche centimetro; magari ero un po’ estroverso, nel senso che nel mio piccolo avevo cercato di far sempre quello che mi passava per la testa, senza ovviamente andare a calpestare i piedi a qualcuno, non tanto per timore, ma per un quieto e sereno vivere. Ora però sentivo che era diverso, avevo perso tutto, dal mio lavoro, alle mie amicizie, e a questo punto il quieto vivere poteva andarsene a quel paese.

      Nella testa un’ipotesi si faceva sempre più ferma e concreta. Cosa avrei dovuto fare per racimolare un bel po’ di soldi senza fare molta fatica, utilizzando solamente la testa? Senza magari vincere alla lotteria nazionale o ai classici gratta e vinci? Un’unica risposta si accese nei miei pensieri: lo spacciatore di droga. Io che con il mio lavoro l’avevo sempre combattuto, ora trovavo in esso l’unico punto di forza per rialzarmi e riuscir a far voltar pagina alla mia vita. Gli spacciatori arrestati nella mia carriera di certo non lì riuscivo a contare sulle dita di una mano, e nemmeno in tutte quelle che possedevo, e forse grazie anche a questa esperienza, avrei potuto scavalcare la staccionata senza risentire del cambiamento di ruolo. Poche volte avevo fatto uso di droga, se qualche spinello nell’adolescenza si poteva definire tale, e questo era un bene, perché essere tossicodipendente non avrebbe fatto di certo bene agli affari, anzi, mi avrebbe fatto diminuire di molto il profitto. La cosa però non era molto semplice da imbastire. Il primo problema era riuscire a trovare la roba buona senza conoscere il prodotto. Il secondo, forse però di maggior importanza, era l’esser conosciuto dalla maggior parte degli spacciatori come uno sbirro, visto che l’ottanta per cento di loro li avevo arrestati. L’unico punto a mio favore erano le pessime condizioni in cui mi trovavo ora, e quella gentaglia forse non mi avrebbe riconosciuto subito, e se l’avessero fatto magari percependo le voci che giravano per i bassi fondi, non avrebbero dato peso alla mia presenza, e poi provare non mi sarebbe costato nulla, al massimo avrei ricevuto una coltellata alla schiena.

      Ora questa prospettiva mi stava dando un grosso stimolo. Non so sino a dove sarei arrivato, ma utilizzare la mia esperienza e la mia intelligenza per sfuggire alla polizia e racimolare quanti più soldi possibili, era una cosa che mi galvanizzava e l’essere totalmente libero e indipendente era di certo un vantaggio da non trascurare.


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