Oltre Il Limite Della Legalità. Alessandro Ziliotto

Oltre Il Limite Della Legalità - Alessandro  Ziliotto


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dovevo fare i conti alla fine di ogni giornata ero solamente me stesso.

      Con l’avanzare del tempo e dello spazio, mi ritrovai tra i vicoli del centro. Molti ricordi si celavano in quelle vie, belli e brutti, ma questo non faceva differenza perché erano parte della mia vita e della mia persona, ma ora non avevano alcun valore, se non quello di stuzzicare la memoria in vecchi ricordi oramai troppo lontani per sentirne il sapore. Cercavo lo sguardo delle persone che incrociavo, frugavo nei loro occhi qualche segno, o qualche familiarità, ma di sicuro non sapevo nemmeno io di cosa avevo bisogno o cosa speravo di trovare, ma continuai in quella vana osservazione, sino a che decisi di fermarmi. Avevo le gambe appesantite, e oltre ad avere la gola secca, anche lo stomaco cominciò a brontolare e a contorcersi dal digiuno, ma certo, di spiccioli per mangiare in tasta non me n’era rimasto nemmeno uno. Prima di mettermi comodo, accettai un volantino pubblicitario distribuito da uno dei tanti ragazzi universitari, che posizionati sulle arterie principali, sfruttavano quell’attività per mantenersi gli studi. Cominciai a creare un origami. Piega dopo piega, davo forma a quel semplice depliant, come insegnatomi dal mio professore di tecnica al tempo della scuola media. Non era difficile da comporre, bastava piegare i vari angoli e faccettature sino a comporre una barchetta, e sciolta questa, la scatolina era ben che fatta. Posai a terra il piccolo capolavoro e abbassando la testa, assumendo un’espressione sconsolata, rimasi in attesa degli spiccioli di qualche buonanima di passaggio. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo cercando un po’ di compassione, considerato che le monetine non fioccavano come rondini a primavera. Ogni volta che accadeva guardavo il mondo intorno a me. Dagli studenti che animavano con il loro passaggio e le loro chiacchiere il marciapiede coperto dai portici simmetrici di colore grigio, alle persone ferme alla fermata dell’autobus pronte a salire per dar cambio a quelle che scendevano. Senza tralasciare le scritte dei vari negozi di moda, dei piccoli bar, e di tutti gli altri esercizi commerciali che contornavano la via. Di tanto in tanto la mia attenzione veniva catturata da un negozio posto dall’altra parte della strada, anche perché era stato aperto da qualche mese, ma la sua affluenza non era diminuita con il passare dei giorni, stavo parlando del negozio della mela più conosciuta al mondo. Mi trovavo in via Rizzoli, a pochi passi da piazza Maggiore. Se guardavo a destra potevo vedere innalzarsi le torri degli asinelli. Il solo vedere i piccoli mattoni arancioni di cui erano composte, mi portava alla mente il giorno in cui in compagnia di una nuova amica, Stephanie, che avevo conosciuto in una delle mie tante serate in discoteca solo qualche giorno prima a quell’evento, con l’abilità che solo una donna possiede, era riuscita a raggirarmi, convincendomi a salire sin su la torre più alta, per ammirare lo spettacolo che Bologna stava riservando solo per noi. Quella ragazza era una forza della natura, brasiliana e dal sorriso coinvolgente. Capelli ricci biondi contornavano il suo viso dolce e morbido. Ora che ci pensavo non comprendevo perché decisi di non frequentarla più dopo sole due settimane che uscivamo, anche se il lavoro aveva influito e non poco, considerato che mi portava via il novanta per cento della giornata. A quanto ricordavo però e per quel poco tempo che l’avevo vissuta, l’avevo trovata una persona gioiosa e positiva, con la quale condividere del tempo assieme era sempre un piacere. Anche perché detto tra di noi, ero giunto al punto di affermare che le ragazze brasiliane erano dotate di una carica sessuale fuori dal comune, appurando che se le loro voglie non venivano soddisfatte puntualmente, ti lasciavano per il primo che passava. Magari il primo no, ma il secondo indubbiamente sì. A convincermi a salire per tutti quegli scalini, fu solo un motivo, il più banale per un uomo, le era bastata una sola e semplice frase, detta con accento portoghese ovviamente: “Se non sali con me questa sera niente samba.” Non serviva spiegare cosa intendesse lei per samba, visto che io non sapevo di certo ballarla. Fatto sta che ero salito sin lassù, trovando lo spettacolo che s’intravvedeva, impagabile. La ringraziai per avermi fatto fare tutta quella fatica, non a parole ma alla mia maniera la sera stessa, con la samba ovviamente. Quella che vedevo da lassù, ed era sotto ai miei piedi, era la mia città e da lì mi sentivo parte di essa come non mai.

      

      

      Durante i momenti in cui la mia mente si riposava dai flashback che la memoria gli sparava, mi capitava di incrociare lo sguardo di molti dei miei ex colleghi. Non so se mi riconoscessero o meno, sta di fatto che proseguivano per la loro strada come nulla fosse, senza nemmeno lasciarmi un euro. Come riuscivano a essere così indifferenti? Come riuscivano a cancellare tutte le esperienze trascorse assieme con un semplice colpo di spugna? Se sino ad ora la stima e il rispetto per quelle persone era calato precipitosamente, considerata la loro indifferenza per la mia situazione, ora queste due emozioni venivano cancellate via per ognuno di loro a ogni loro passaggio. Ora esisteva solamente una persona, me stesso. Cominciai a pensare di cosa avevo bisogno, e la risposta fu piuttosto banale e veniale, di soldi, e molti, e di certo stando seduto come un barbone alcolizzato non avrei risolto il problema. Ero già con le mani posate a terra, pronto a rialzarmi, quando notai avvicinarsi alla scatolina una persona. Calzava dei sandali usurati, con un paio di jeans tutt’altro che alla moda. Man mano che il mio sguardo si alzava, analizzavo l’abbigliamento grossolano indossato da quell’uomo magnanimo. Dalla cintura gli usciva una camicia a quadretti rosso e bianca, assomigliava un po’ alla mia, non di pari bellezza, però alla moda. La vestiva leggermente aperta all’estremità superiore, facendone fuoriuscire un ciuffetto di peli neri. I miei occhi si fermarono sui suoi, lasciandomi per un attimo spiazzato; sensazione esternata anche da lui, considerato che aveva fatto un mezzo passo indietro. Tentai di mascherare il mio disagio, ma non so quanto ci riuscii, sebbene normalmente la cosa mi veniva spontanea, ma con lui accadde qualcosa di anomalo. Guardare nei suoi occhi era come guardare in quelli di un bambino. Nessuna cattiveria o pregiudizio, e massima trasparenza. Mentire a quegli occhi era come mentire a una persona immacolata, a un parroco al momento della confessione. Il mio imbarazzo, ipotizzavo fosse nato dalla stima che versavo nei suoi confronti, perché non aveva la capacità di mentire, e se lo faceva chiunque avesse avuto di fronte se ne sarebbe accorto immediatamente. Era una situazione tutt’altro che semplice, ma che lui riuscì a spezzare con un semplice sorriso. Sfilò dalla tasca dei jeans la mano e dopo essersi piegato leggermente in avanti posando un’altra moneta, questa volta da due euro, nella mia piccola creazione architettonica, mi chiese:

      “Ti spiace se ti faccio un po’ di compagnia?”

      Con la mano spazzai via le cartacce che si erano depositate accanto a me portate dal vento. Non ricordavo da quanto tempo non lo vedevo, ma caspiterina era intatto, dal taglio di capelli, ai vestiti. Sin da quando l’avevo conosciuto, l’avevo sempre visto in quelle vesti, come fosse un super eroe con la sua tenuta speciale, e mai avevo trovato il suo odore sgradevole, a parte magari quello dell’alito, tendente molte volte all’aglio.

      La nostra conoscenza era stata del tutto causale, per non dire dettata dal destino, anche se a queste stupidaggini non ci credevo profondamente. A volte imboccavo questo sentiero per giustificare certi avvenimenti della vita, dei quali non riuscivo a dare una spiegazione plausibile, ma con i quali ci dovevo convivere giorno dopo giorno, ora dopo ora. Credere che certe cose siano già scritte nella lavagna della vita, fa sperare che un capitolo venga chiuso al più presto e che allo stesso tempo ne venga aperto un altro, capace di mutarla completamente. Era una mera speranza, un’idea nata e accantonata nel profondo dei miei pensieri, la quale però m’aiutava ad andare avanti e affrontare un giorno alla volta senza aspettarmi nulla dal futuro, solo avvenimenti positivi per migliorare e stimolare la mia esistenza.

      La prima volta che lo conobbi mi venne subito alla mente, come un riflesso naturale. Entrò nel nostro ufficio, o meglio, ex ufficio della narcotici dove lavoravo, accompagnato da un altro nostro collaboratore, e suo connazionale. Era la prima volta che lavorava con quella mansione, però l’amicizia con la persona che ce l’aveva presentato valeva più di mille parole. Infatti con l’avanzare dei giorni la sua esperienza cresceva sempre più, come la confidenza con noi, e lentamente, con garbo e educazione, esprimeva la sua mera impressione su ciò che sentiva e traduceva, facendoci capire che sebbene quelle persone dicessero una cosa, ne volevano intendere un’altra, insomma stava diventando uno sbirro. La cosa che più lo faceva arrabbiare e per la quale aveva accettato il lavoro come interprete, era l’antipatia verso i suoi paesani, ovvero verso quelle persone che si ritenevano più furbi e scaltri degli extracomunitari che vivevano in Italia rispettando le leggi e le regole presenti, e farceli arrestare per lui era una grossa soddisfazione. Certo per lui non era


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