Le Regole Del Paradiso. Joey Gianvincenzi

Le Regole Del Paradiso - Joey Gianvincenzi


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      Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.

      Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.

      â€œAscoltami brutta troietta” disse lui con voce calma e fredda, “a me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritato”.

      Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.

      Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue ‘colpe’ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quell’agitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dell’occhio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dell’occhio formata per il 93% dalla sclera, l’iride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie all’apparato visivo, di vedere grazie all’entrata della luce che essa lasciava passare all’interno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con l’anima quegl’occhi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per l’uomo: il sorriso.

      Era per questo che cercava di giustificare i suoi atteggiamenti isterici, dai modi bruschi che aveva di trattarla, anche se poi, per come si comportava, di giustificazioni proprio non ce n’erano.

      * * *

      Jane indossò un pesante cappotto, il cappello e i guanti di lana. Mentre raggiungeva la scuola, pensava che avrebbe preferito un’imminente disgrazia piuttosto che un altro incontro con Ashley; quando arrivò davanti al liceo la sua mente le proiettò i terribili attimi che le aveva fatto passare la reginetta della scuola insieme alle sue amiche. Sperava con tutta se stessa di non incontrarla mai più, sperava che si fosse trasferita per sempre in un’altra città, ma sapeva benissimo che le sue speranze infondate non sarebbero mai potute diventare realtà, così sperò solo nella sua assenza. Le faceva male ancora la parte destra del torace e se quella mattina Ashley l’avesse picchiata di nuovo, sarebbero arrivati altri dolori atroci da sopportare.

      Non appena la campanella suonò, Jane varcò la soglia dell’aula, intenzionata a mettersi subito seduta al suo posto per ripassare, sfuggendo così al possibile incontro con Ashley, ma con sua grande sorpresa, appena entrata nell’aula, trovò l’ultima persona che avrebbe voluto vedere seduta al suo banco, all’ultima fila. Fu presa da una morsa di paura e non riuscì a pensare a cosa fare, a cosa dirle.

      Ashley rimase ancora alcuni attimi al posto di Jane.

      â€œHai cambiato il modo di truccarti?” disse guardandole l’occhio ancora un po’ violaceo. “O è la nuova moda delle puttane come te?” socchiuse gli occhi, come per osservare ogni reazione della sua vittima. Non voleva perdersi neanche un attimo del terrore che Jane stava provando.

      La classe era ancora vuota e i fasci di luce che entravano dalla finestra erano gli unici spettatori di quella conversazione.

      â€œAscoltami bene, te lo dirò con molta calma perché non ho nessuna voglia di alterarmi…” iniziò lei alzando il dito in aria.

      Jane si sentì fortunata: qualsiasi cosa stesse dicendo, non sarebbe ricorsa alla violenza.

      â€œSperando che tu abbia capito la mia superiorità rispetto a te che non vali assolutamente niente, mi sembra giusto che tu abbia degli obblighi nei miei confronti” continuò Ashley.

      â€œNon credo di…”

      â€œNon fiatare. Non devi parlare con me. Mi dovrai portare sempre dei soldi, questo deve essere chiaro e devi ficcarti nel cervello che non dovrai mai saltare un giorno. Se avessi voglia di non venire a scuola per chissà quale cazzo di motivo, tu sei obbligata a venire lo stesso a darmi i soldi che mi devi e andartene di nuovo da dove sei venuta. C’è qualcosa che devo ripetere o hai afferrato il concetto?” domandò retoricamente.

      Jane rimase sconcertata di fronte a quelle parole e non riuscì a controbattere. Moriva dalla voglia di darle uno schiaffo in piena faccia, ma il suo corpo risultava immobile come una statua di bronzo.

      â€œQuanto hai dietro?” domandò di punto in bianco la reginetta. Jane mise una mano in tasca e tirò fuori tremante il suo portafogli.

      â€œDue dollari” rispose con voce incerta.

      â€œNon ci credo! Hai una villa, tuo padre è pieno di soldi e giri con due miseri dollari?”

      â€œNon ho altro…”

      â€œSei patetica” rispose Ashley strappandole dalle mani le due banconote da un dollaro ciascuna.

      â€œSpero che domani non farai la stessa figuraccia”.

      Dopo le minacce, Ashley le diede un colpo sulle costole: Jane si piegò in avanti e strinse i denti per il dolore riuscendo a non gridare; respirava affannosamente e pregò il cielo che tutto finisse con quell’unico colpo.

      La reginetta si mise al suo posto e aspettò, come se niente fosse, l’arrivo di Flores.

      * * *

      Sapeva benissimo che Ashley non scherzava.

      Jane si chiese quante persone nel mondo avessero problemi di quel genere; quanti ragazzi si immischiassero in affari loschi, in giri di soldi sporchi e quanti di loro, come lei, dovessero del denaro a qualcuno. Il problema però era che Jane non aveva fatto niente per meritare quella punizione: il suo era un insensato obbligo imposto da una ragazzina prepotente e strafottente che riusciva nel più brillante dei modi a far valere le sue regole alle persone giuste. Jane era un’ottima preda. Pur di non avere guai era disposta a subire e Ashley questo lo aveva capito fin dall’inizio.

      Appena entrò in casa salì al piano di sopra e meditò sul da farsi: doveva procurarsi ogni giorno un po’ di soldi; aprì con foga il tappo bianco del suo salvadanaio e di colpo volarono in aria solo alcuni spicci. Caddero rumorosamente sulla scrivania bianca e altri a terra; li contò tutti, ma non


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