Zenith. Saccinto Saccinto
sembrava essersi sganciato dal sostegno che lo reggeva fermo nella testa, i colori delle cose venivano fuori dai contorni, le linee si deformavano davanti ai miei occhi, gli oggetti intorno a me si muovevano mellifluamente, in maniera autonoma, persino sovrapponendosi.
Avvicinai lentamente un dito alla tempia, per rendermi conto dell’entità della ferita. Lo immersi nella morbida carne aperta e barcollai quando sfiorai il ruvido bordo tagliente, come di un dente spezzato, di un profondo spacco lungo il cranio. Ingoiai sangue. Macchie rosse diventavano nere e si allargavano tra i miei occhi e gli alberi, tra i miei occhi e il monastero in alto oltre il ponte distrutto, tra i miei occhi e la notte. Finché non oscurarono ogni cosa. Sul mio corpo si aprivano centinaia di ferite attraverso cui il buio penetrava come aria. Allungai un braccio per raggiungere il tronco di un albero davanti a me, ma quando infilai la mano nel buio, non era più dove avrebbe dovuto essere.
Iniziai a muovermi piano in avanti, con una mano alzata per trovare un punto di riferimento qualsiasi, ma ogni cosa giocava a starsene nascosta un centimetro oltre le mie dita. Tutto si era dissolto, la realtà non esisteva più. Era rimasto soltanto il freddo. Riuscivo a vedere le mie mani, le mie gambe, gli scarponi, ma intorno non c'era altro. Mi fermai, crollai col culo sul pavimento del buio. Mi passai le mani sulla faccia. C'era ancora.
Il propagarsi di un tonfo lontano fece vibrare il terreno sotto di me. Alzai la testa e mi guardai attorno. Qualcosa si muoveva sulla linea d'orizzonte alla mia destra con grande lentezza verso di me. Il buio non poteva oscurare neanche quell'immagine. Mi misi in piedi, mi voltai dall'altra parte e iniziai a camminare.
Dove stai andando? Qui non esiste una direzione.
Continuavo a guardarmi indietro per controllare la distanza che si allungava tra me e l’immagine in fondo al buio. Camminava così piano che dopo un po’ era scomparsa. Smisi di preoccuparmene, ma quando girai la testa in avanti, la rividi avanzare con la stessa pesantezza verso di me, come se le fossi andato incontro invece di distanziarla. Mi fermai. Mi girai in senso inverso e ripresi a camminare per un lungo tratto, ma successe la stessa cosa della prima volta. L’immagine mi seguì finché non fui abbastanza lontano, poi riapparve davanti a me, venendomi incontro.
Mi fermai di nuovo. Scelsi ancora un'altra traiettoria diversa e accelerai il passo. Ancora una volta il piccolo punto in luce si affievolì fino a non essere più visibile, soltanto per ricomparire nel nero davanti a me. Iniziai a correre nel vuoto, deviando ogni volta che vedevo l’immagine riapparire. Qualunque direzione prendessi, l’immagine tornava ad avanzare verso di me, come un riflesso in una serie di invisibili specchi che circondava il buio. Rallentai la corsa.
Non c'era un modo di fuggire o di nascondersi, potevo solo aspettare che la cosa che si muoveva nel buio mi raggiungesse. Tastai il terreno con una mano, mi misi a sedere, calai la testa tra le ginocchia e strinsi le braccia intorno alle gambe. I tonfi proseguirono, sempre con lo stesso ritmo, lento, ma continuo come l’ossessivo sgocciolare di un rubinetto che perde nella notte e prende una forma astratta all'interno di un sogno. Si avvicinavano senza che niente potesse fermarli. Non mi mossi, soltanto non riuscivo a smettere di tremare.
L'ultimo passo impattò contro la superficie qualche metro davanti a me e risalì lungo la colonna vertebrale. Un calore improvviso si diffuse sulla nuca quando la cosa emise un respiro. Un lungo lamento involontario venne fuori attraverso i miei denti digrignati. Sentivo una mole impressionante sospesa su di me. Oscillava piano a destra e sinistra, come se fosse in attesa di un mio movimento. Portai le dita della mano sinistra sulla tempia. La accarezzai delicatamente.
L'amalgama appiccicaticcio di sangue, carne e capelli che cercavo con i polpastrelli, non c'era. La ferita era scomparsa. Era tutto a posto, tutto pulito.
Questa non è la realtà.
Alzai lentamente la testa e spostai lo sguardo al di sopra delle ginocchia. Quattro enormi zampe di animale erano rivestite da una coltre di lunghi peli chiari. La pelle, di un rosa sporco, incrostata di melma e filamenti d’erba secca, era incisa da profonde rughe e cicatrici. Il collo mi diventò molle. Uno sconcertante grugno rosa espirava caldi sbuffi ritmati e rilasciava una bava arcuata giallastra. Davanti a me, un suino della taglia di un elefante sovrastava il buio. Lo guardavo senza riuscire a crederci, ma l'animale continuò a oscillare piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito. I piccoli occhi pelosi mi osservavano.
Mi alzai con una calma irreale. L’enorme testa si mosse piano, attratta da qualcosa verso il basso, poi fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e uno scatto improvviso di cui non sembrava capace. Abbassai lo sguardo. La mia mano era scomparsa nelle calde fauci fino al polso. Guardai le piccole pupille nere, lucide come se fossero di plastica, e tirai in maniera impercettibile il braccio. Era incastrato. Non feci in tempo a pensarlo che la testa del maiale scattò ancora in avanti di un po’. Dal gomito in giù, in un attimo, il braccio era tutto steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Non capivo se dovermi preoccupare.
Piantai il palmo della mano sull’ovale umido del naso, infilai per sbaglio un dito in una narice e spinsi mentre tiravo il braccio incastrato più forte che potevo verso di me. Non si spostava di un millimetro. Continuai a fare forza e dare strattoni, cercai di afferrare e stringere qualcosa con la mano all’interno della bocca, ma il maiale restava impassibile. Aspettava che la smettessi. E quando mi fermai a riprendere fiato, con un altro scatto, mi avvolse la spalla, senza alcuno sforzo. Dovevo preoccuparmi.
La testa del maiale si sollevò lentamente. Ruotai il corpo intorno alla giuntura per seguirne il movimento ed evitare che si spezzasse e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilacciava sul pavimento. Trattenni il respiro e smisi di dibattermi. Il maiale sembrò non avere atteso altro, spalancò le fauci e, con l’ostinata lentezza di un pachiderma, mi avviluppò la testa e le spalle.
La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide della cavità orale, il mio corpo scivolò avanti e indietro risucchiato dalla gola. Un millimetro alla volta, il condotto si allargò, si adattò a me come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pugni mi premevano addosso dappertutto e mi spingevano avanti nel condotto sempre più stretto e buio. Una membrana elastica come una busta di plastica aderì alla mia faccia impedendomi di respirare finché non si strappò e mi ritrovai affacciato alla bocca dello stomaco. Cercai un appiglio sui bordi scivolosi, non riuscii a trovarlo e slittai giù, in caduta libera.
Dal nulla si diffuse intorno a me la luce di un cielo disseminato di grandi nuvole bianche. Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un freddo flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto il collo, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di ricacciarla al suo posto per guardare in basso, ma non riuscii a vedere niente finché non venni fuori dall’ultima nuvola.
Mi sfracellai con un boato su un piano solido. Attorno a me si sollevò un immenso sbuffo di polvere. Restai immobile in una concentrazione di tempo infinita, in attesa che la coscienza si spegnesse definitivamente. Non provavo alcun dolore. Sentivo le mani e i piedi enormemente distanti. La mente si era frantumata in migliaia di schegge, ma la coscienza persisteva come un’ostinazione del dormiveglia.
Iniziai lentamente a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo. Provai a muovermi quando mi sembrò di avere di nuovo una consistenza. Mi alzai come un manichino scomposto, un braccio pendeva dal lato sbagliato del gomito, il collo aveva un’inclinazione innaturale, i jeans sembravano contenere un accumulo di frammenti. Le mani, dilatate fino a sembrare finte, si riassestarono sotto i miei occhi, le ginocchia scattarono in linea. Nel cranio e nella mandibola un formicolio delle ossa mi sistemò il volto.
Quando la nuvola di polvere si posò, dalla terrazza dove mi trovavo vidi una città in rovina che si estendeva, vuota e silenziosa, sotto di me. Era fatta di ammassi di case costruite una sopra l’altra in assurde arrampicate verso il cielo, talmente incastrate tra loro da sembrare inaccessibili. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e guardai in alto. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Il centro di un pavimento