Zenith. Saccinto Saccinto
nulla e la sostanza eterea dei tuoi sogni. Sai perché sei qui?».
Scossi la testa.
«La realtà si è frantumata, qualcosa di soprannaturale è accaduto, qualcosa che succede una volta ogni generazione» le sue labbra modulavano le parole lentamente, quasi in ritardo rispetto alla voce. Il corpo si muoveva languidamente, come se fosse immerso in un fluido attraverso cui parlava.
Voltò la testa alla sua sinistra, tra i capelli si intravedeva l’incredibile lucentezza della nuca. Il pugno rivesito di rampicanti sulla destra si aprì. Un’altra figura piegata, avvolta da una morbida massa di capelli ricci e biondi iniziò a stiracchiarsi come se si fosse appena svegliata. Due mani bianche, dalle dita lunghe e sottili, sollevarono i capelli sopra la fronte. Gli zigomi sporgenti, attraversati da riflessi azzurri, tendevano la pelle delle guance bianca e lucida come alabastro. Anche il suo corpo era nudo, dentro il vestito nero unito da ricami sul seno bianco e pieno, sul ventre morbido, sulle gambe scolpite. Si alzò in piedi e si affacciò come aveva fatto l’altra, osservandomi con gli occhi d’argento.
«Una volta ogni generazione» disse. La sua voce era come un rumore, un disturbo, come il crepitio del ghiaccio che si incrina.
«In una notte d’inverno che ha invaso l'estate» iniziò la prima voce «Un’essenza sente il presagio della morte che la sta cercando. I suoi sensi si allertano e si acuiscono fino a permetterle di vedere l'invisibile, di sentire il silenzio, di credere all'incredibile e di affacciarsi su una dimensione oscura, al di là della vita, prima ancora che la morte sia riuscita ad afferrarla».
«Da una porta aperta tra le due dimensioni è possibile guardare la morte dalla vita, ma è anche possibile guardare al contrario, la vita dalla morte. La morte sopraggiunge, la porta resta aperta, l’essenza non è più viva, non è ancora morta, non del tutto. La morte non può impossessarsene completamente, ma soltanto per una notte. Questa è una di quelle notti» continuò la seconda voce.
«Tu sei l’essenza che ha sentito la morte arrivare, le sei sfuggito attraverso il passaggio che hai lasciato aperto. Hai portato la morte nella vita e la vita nella morte, hai generato un paradosso che dovrai risolvere fino alla fine di questa notte, quando la porta dovrà essere di nuovo chiusa» concluse la prima voce.
L’eco delle due voci mi volteggiò intorno come un vento che saliva a spirale, intrecciandole. Chiusi e riaprii gli occhi un paio di volte, guardai prima una e poi l'altra ragazza. Avevano un’età indefinita. Alcuni riflessi, sui loro volti, rischiaravano lineamenti morbidi di adolescenti, altri tagli di luce incidevano profonde rughe sulla loro pelle. Mi portai le mani alle tempie, cercai di contenere la velocità con cui avevano preso a rincorrersi i pensieri.
«D’accordo» dissi «L’unica cosa che si è aperta questa sera è stata la mia testa. C’era una crepa larga quanto un dito proprio qui, sulla tempia, che deve aver danneggiato il cervello, ma non importa. Come avete fatto ad apparire? E come si fa ad uscire da questa allucinazione?».
«Non siamo apparse per nostra volontà, non senza che tu ci abbia cercato» la ragazza dalla pelle bianca aprì un braccio verso l'altra per poi ripiegarlo su di sé.
«Tu ci hai chiamate».
«Io?».
Io le ho chiamate.
Ancora quella stupida voce nella testa. Mi guardai attorno.
«Nove anime» ricominciò la prima voce «raggiungeranno la collina, questa notte».
«Nove anime in bilico. Attraverseranno il confine e resteranno sospese».
«La tua essenza potrà cambiare gli eventi e salvarle, se saprai orientarti nel buio».
Il terreno riprese a tremare. Indietreggiai senza sapere dove direzionare lo sguardo e i piedi. Una base di piramide sormontata da una lunga e stretta torre dalle pareti devastate dal tempo venne fuori dal terreno da qualche parte a est, come era successo poco prima con le due braccia rivestite di rampicanti. Sulla facciata rivolta a noi, nove alte finestre ad arco erano in linea con la grande entrata alla base.
«Avrai nove ore».
«La torre resterà in attesa di ognuna delle anime».
«Fino al termine di questa notte».
«Finché non avrai fatto la tua ultima scelta».
«Ognuna delle vostre vite sarà restituita se salverai più anime di quante ne perderai».
«Nessuna delle vostre vite sarà restituita se perderai più anime di quante ne salverai».
«In un’unica sorte comune di cui sarai responsabile».
Si sollevò un silenzio attraversato da centinaia di sussurri che si prolungavano in echi ossessivi nella piccola valle.
«Non sono stato capace di salvare neppure la mia vita» dissi, indicando al di là del buio alle mie spalle. Ma i due pugni di rampicanti si stavano già richiudendo.
Mi ritrovai tra le dita la sigaretta che non avevo più acceso alla fine del corridoio. La guardai, la feci rotolare nel palmo. Non avevo più nessuna voglia di fumare, ma la accesi lo stesso.
Capitolo 3
La prima anima non aveva le sembianze di un’anima. Era un ragazzo lungo e magro con le spalle a spigoli. Portava una giacca e un paio di pantaloni grigio chiaro, una camicia bianca aperta sul collo e scarpe nere. Avanzava tra l'erba alta e rada con le ginocchia sollevate. Gli occhi castani dalle ciglia lunghe mi guardavano sopra un naso con la punta schiacciata sul volto rettangolare. La strana lucentezza della pelle la faceva sembrare vagamente plastificata.
«Pensavo che non avrei trovato nessuno qui. Sono venti minuti che cammino» disse. Fece altri due ampi passi e si fermò, allungò una mano «Ambrose Denitti. Designer di interni. Interni di lusso».
Il polso della camicia venne fuori dalla manica della giacca. Trattenne il fianco della stessa con l'altra mano.
«Che razza di situazione» dissi. Mi alzai da terra, dalla sterpaglia dove me n'ero stato seduto fino ad allora. Strinsi la mano davanti a me.
«Sico» dissi.
La fronte dell'anima si corrugò. Tirai un'ultima boccata dalla terza o quarta sigaretta da quando ero arrivato, prima di schiacciarla sotto la punta dello scarpone. Le spalle appuntite traslarono di lato per farmi spazio. Mi allungai verso il sentiero.
«Ho l'auto che si è fermata sulla statale. Non so che cosa le sia preso, non mi ha mai dato problemi. Per quello che l’ho pagata, c’è da non crederci. A dire il vero devo essere uscito un po' fuori strada» fece frusciare la giacca, allungando un braccio all'indietro mentre mi camminava accanto «Ho provato a contattare il soccorso stradale, ma non c'è campo» controllò il display di un grosso cellulare, ticchettandoci sopra con due dita «Non è che mi faresti provare con il tuo?» mi puntò con l’antenna del telefono.
Scossi la testa e alzai le spalle.
L’aria intorno a noi era cambiata, un vento leggero si era alzato, mentre nel cielo le nuvole si assottigliavano piano.
«Posso pagarti la telefonata» disse l’anima, allargando le braccia.
Mi fermai, mi girai verso di lui «Non ho un telefono» dissi.
«Va bene, va bene. Facciamo così: vieni con me fino alla macchina e resta almeno a controllarla mentre io cerco aiuto».
Feci ancora no con la testa.
«Senti, sei l'unico che può aiutarmi. Non vedo nessun altro qui,» fece un giro completo su se stesso «ho un Porsche Boxster grigio metallizzato con tettuccio apribile automatico e interni in pelle rossa immatricolato sei mesi fa, fermo fuori strada a non so quanti chilometri. Che dici, vogliamo lasciarlo lì incustodito per molto?».
Ripresi a camminare, il ragazzo mi seguì. Scavalcammo l'erba alta ai bordi del sentiero per avvicinarci alle due braccia di rampicanti. Gli ultimi steli di gramigna gli finirono dentro i pantaloni, scostò la gamba con rabbia e assestò un calcio a un cespuglio rinsecchito, sradicandolo. Bestemmiò qualcosa tra sé e sé.
«Domani sono pieno di appuntamenti,