Zenith. Saccinto Saccinto

Zenith - Saccinto Saccinto


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di I wanna be adored, una vecchia canzone degli Stone Roses, veniva fuori dallo stereo che funzionava ancora.

      Una pozza di sangue si ampliava a pochi centimetri dalle mie scarpe, come se stesse cercando di raggiungermi. Le gocce, lunghe e fluide, fuoriuscivano dalla base dello sportello chiuso. Immersi un piede nel sangue, camminai nel cono visivo di quell’unico occhio. Mi chiesi se quella che osservavo, al di là del terrore che mostrava, fosse o meno un’espressione interrogativa nel crepitio della plastica che bolliva.

      Il riflesso sulla punta piatta del naso di Ambrose si allargò, il bagliore aumentò in un attimo. Scoppiai a ridere senza riuscire a trattenermi. Poi alzai le braccia per coprirmi il volto. Se l’occhio di Ambrose aveva ancora la capacità di vedere, la mia immagine che rideva fu l’ultima cosa che restò impressa nella sua retina. Nell’arco di un solo secondo, una nuova vampata devastò la notte, mischiando sangue, abiti e lamiere, fumo e vite spezzate e avvolgendomi in un vortice di dolore abbagliante che rase al suolo tutto quello che c’era intorno. Mi contorsi per un tempo infinito in quel dolore indescrivibile.

      Capitolo 4

      Alzai la testa verso il volto della ragazza vestita di bianco. Sembrava serio e preoccupato. Vecchio. Il suo seno si era nuovamente riempito, il suo corpo aveva ripreso le forme morbide che aveva prima dell’arrivo di Ambrose. Infilai il mento nel collo della felpa, con le mani nelle tasche senza neppure ascoltare quello che stava dicendo. Non mi ero mai sentito così perso dentro me stesso come quando avevo attraversato il buio ricolmo di semisfere sospese e il corridoio oscuro per tornare alla collina. La mia essenza altalenava tra esaltazione e frustrazione in un continuo trasfigurare senza forma. Vedevo pezzi di verità e non una verità completa, mi sembrava di arrivare a una meta, poi venivo risucchiato via, tornando al punto di partenza, senza riuscire a tenere il controllo di quella che era per davvero la mia volontà. Non avevo una volontà.

      Scossi la testa in risposta alla domanda che indirettamente mi ponevano gli sguardi delle tre figure. Chiusi gli occhi, senza dire una parola. Cercavo di accantonare il ricordo di ciò che era accaduto. Proteggevo la mia scelta con il silenzio o qualcosa del genere. Salvare qualcuno non aveva senso. Non sarebbe cambiato nulla, si sarebbe solo protratto un altro egoismo personale. Il mondo non avrebbe sentito la mancanza di Ambrose e al mondo non eravamo utili né io, né tutti quelli che sarebbero arrivati quella notte. Rappresentavamo la stupidità della vita, una speranza che, come tutte le inutili speranze, non sarebbe mai arrivata a niente di concreto. Eravamo evanescenti. Il ruolo che ci spettava era quello di spettri che non appartenevano più al mondo. Che, forse, non gli erano mai appartenuti.

      Vidi il grande braccio piegarsi lentamente, fino a portare la piattaforma dall’aspetto di una mano al terreno. La ragazza vestita di nero, la Pura Verità, scese, raggiunse il ragazzo, gli mise una mano sulla spalla mentre lui immergeva con apparente disperazione la faccia tra le mani. Improvvisamente mi sembrò di sentire freddo.

      Ambrose fu accompagnato in una lenta passeggiata verso la torre. Si voltò per un’ultima volta a guardarmi, a guardare il buio che era stato la sua vita. Forse rimpianse qualcosa, forse la morte gli era servita di più che l’esistenza stessa. Poi la ragazza lo spinse dentro, con tatto, quasi con compassione.

      Dopo un lungo tempo inciso dalle crepe di un silenzio funebre, scese lei sola dalla torre marcescente. Le lunghe gambe sfilarono in un’andatura veloce, illuminata dal chiaro della pelle liscia e tesa sulle curve di donna. Mi voltai. Mi allontanai dalle due mani di rampicanti mentre la ragazza riprendeva la sua posizione e il braccio si rialzava poco per volta da terra.

      Trascinai i piedi verso il confine del prato, là dove poco prima c'era stato il corridoio oscuro. Sul taglio netto del buio pendevano gli ultimi steli di erba turchese. Mi sedetti lì, con il fondo dei jeans sulla terra e le caviglie, sovrapposte l'una all'altra, immerse nel vuoto.

      Dove si sta spingendo il tuo sguardo? Che cosa vedi, attraverso il buio?

      Un oscuro futuro. Chiusi gli occhi per vederlo meglio.

* * *

      Aveva i capelli scalati di media lunghezza, gli occhi piccoli e vicini tra loro, dietro un paio di occhiali da vista dalle lenti azzurre altrettanto piccole e rotonde. Indossava un paio di pantaloni bianchi troppo stretti, una camicia aperta sul collo, rosa con le righe sottili grigie che si deformavano aderendo al fisico flaccido, un paio di ridicoli mocassini bianchi alla moda portati senza calze e un maglione poggiato sulle spalle con le maniche riversate in avanti e i polsi annodati fra loro. Sul taschino della camicia, in un sottile ricamo viola, c'era una coppia di iniziali. Aveva almeno una quarantina d'anni. Stipulava polizze assicurative sulla vita. Quel genere di cose per cui una volta morto danno un corrispettivo in denaro alla tua famiglia.

      Valentino era una di quelle persone capaci di far saltare i nervi soltanto col suono della loro voce e di quelle strane erre arrotolate talmente in alto da evaporare dalle parole. La maggior parte di quelle che aveva detto fino ad allora erano una raffica di stronzate. E la sua voce non si era ancora fermata da quando era arrivato.

      «…e poi il lavoro bisogna inventarselo, non è più come una volta. Bisogna essere intraprendenti, stare al passo, avere delle ambizioni. Io ho fatto un sacco di sacrifici, adesso è arrivato il mio turno di passare a capo di zona. Ho dato la svolta, mi sono sempre dato da fare. La fatica che fai per gli altri, prima o poi saranno gli altri a farla per te».

      «Che sacrifici hai fatto?».

      «Stare tutto il giorno fuori casa, mangiare un primo di fretta con il buono aziendale per andare a trovare un cliente, continuare a fare giri fuori orario o restare in ufficio a sistemare le pratiche fino a tardi. La mia giornata di lavoro inizia alle sette di mattino e finisce a mezzanotte. Sono a disposizione del capo ventiquattro ore su ventiquattro. Vado a prendere i suoi figli a scuola, gli faccio la spesa, gli faccio da autista quando capita. Ho rinunciato spesso al giorno di riposo per accompagnarlo ai convegni. Lo faccio per amicizia».

      «Se lo fai per amicizia, perché lo metti tra i sacrifici?».

      «Io ci tengo alla mia azienda» Valentino sorrise «Non credere che siccome passo la maggior parte del tempo seduto a parlare, il mio lavoro non sia pesante. Lo è più degli altri, anzi. Devo convincere le persone. E per farlo bisogna avere le idee chiare ed essere informati su tutto. Solo così puoi diventare il loro mentore e solo quando ti riconoscono come mentore, puoi dare un valore alla loro vita».

      «Tu dai valore alla loro vita?».

      «Sì, beh, è solo una delle mie battute» si passò un dito sotto il naso.

      Feci un paio di passi indietro, prima di voltarmi verso il campo dove si innalzavano le due braccia di rampicanti.

      «Hai assicurato anche la tua vita?» ci avviammo.

      «Stai scherzando? Non so come facciano a vivere tranquilli quelli che non l'hanno fatto. Purtroppo fino a ora ho potuto permettermi soltanto una delle polizze base. Ma, con la promozione, andrò immediatamente a maggiorare il premio».

      «Daranno una bella somma ai tuoi parenti» dissi.

      «Quando morirò, sì» i mocassini bianchi si scontrarono tra loro, Valentino si aggrappò con una mano alla mia spalla «Io dico sempre che la vita è un tavolo verde. Bisogna saper cogliere l'occasione e sapere quando è il momento di aumentare la posta. Non tutti sono abbastanza furbi».

      «Qual è adesso la tua posta?» mi voltai verso di lui.

      «Eh?».

      «Quanto vale la tua vita?».

      «Beh. Al punto in cui sono, ha assunto un certo valore, bisogna ammetterlo. Finché ero un semplice agente di zona, nonostante il grande potenziale di vendita, non è che valesse granché. I sacrifici non si fanno per niente» ridacchiò, si sistemò gli occhiali.

      Tirai fuori l’armamentario per una sigaretta, la rullai stancamente mentre ci fermavamo.

      «Non riesco a capire queste cose. L'azienda, il capo, la promozione…» accesi la sigaretta, bussando sul gomito del primo braccio di rampicanti, le ragazze tardavano a risvegliarsi «Finché accetti di dover chiamare qualcuno tuo superiore, sarai matematicamente il suo inferiore».

      Guardai all’insù, ma le dita non davano


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