Contro Ogni Nemico . Джек Марс

Contro Ogni Nemico  - Джек Марс


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venire. La cosa preoccupava un po’ Susan. In realtà, più di un po’. E, ovviamente, adesso gli attivisti per i diritti dei gay erano furiosi con lui per ciò che loro vedevano come un inchinarsi alle pressioni della Chiesa cattolica.

      Sul podio Karen White, la nuova presidente della Camera, stava appena finendo il suo discorso. Karen era eccentrica, per usare un eufemismo – indossava un cappello con sopra un grosso girasole di carta. Il cappello era più appropriato per una caccia alle uova di Pasqua da bambini che per l’evento di quel giorno. Se Etta Chang lo avesse visto, sarebbe stata ora di un bel cambio di stile.

      Le annotazioni di Karen erano state rapidi affondi contro i liberali al governo – grazie a Dio, perché alle elezioni speciali per ricostituire il Congresso decimato mancavano due settimane. Le campagne si erano trasformate in assurdi battibecchi pieni di odio – gli storici si divertivano ad andare sui notiziari della CNN e della FOX ad affermare che nel paese il discorso civile aveva raggiunto il suo più basso declino dai tempi della Guerra civile.

      Ciò che a Karen White mancava in retorica offensiva sul fronte interno, riusciva a crearlo benissimo sul palco mondiale. Il suo discorso sembrava suggerire – col trasalimento di molti, nel pubblico – che la Casa Bianca fosse stata distrutta non da furfanti del movimento conservatore e dell’esercito degli USA, ma da agenti stranieri, probabilmente iraniani o russi. Durante un passaggio logicamente tortuoso, lo speciale emissario dell’Iran si era alzato in piedi e se n’era andato via, imbufalito, con al seguito due dei suoi diplomatici.

      “Va tutto bene,” disse all’orecchio di Susan Kurt Kimball, il consigliere per la sicurezza nazionale. “Lo sanno tutti che Karen è un po’ bizzarra. Cioè, la guardi. Chiameremo qualcuno del dipartimento di Stato a sistemare le cose per loro.”

      “Come?” chiese Susan.

      Fece spallucce. “Non lo so. Ci inventeremo qualcosa.”

      Sul palco, Kat aveva rivolto a Susan un cenno. Erano pronti per lei. Uscì sul palco mentre gli agenti dei servizi segreti si mettevano in posizione attorno a lei. Il podio era circondato su tre lati da vetro trasparente antiproiettile. Restò un attimo lì a esaminare la folla assemblata. Non era per nulla nervosa. Parlare con la gente era sempre stato uno dei suoi punti di forza.

      “Buongiorno,” disse. La voce riecheggiò per tutto il prato.

      “Buongiorno,” le urlò di rimando qualche simpaticone.

      Si lanciò, a suo agio, nel discorso preparato. Era un buon discorso. Parlò col pubblico di sacrificio condiviso, e di perdita, e di resilienza. Disse della grandezza dell’esperimento americano – cosa che sapevano già. Disse del valore degli uomini che quella notte le avevano salvato la vita, e riconobbe Chuck Berg – che adesso era a capo del distaccamento della sicurezza di casa sua, e si trovava sul palco con lei – e Walter Brenna, che era un ospite d’onore della prima fila. Entrambi gli uomini sollevarono le mani e ricevettero un tumultuoso applauso.

      Disse che si sarebbe trasferita nella Casa Bianca quello stesso giorno – il che portò a una standing ovation – e che li avrebbe accolti all’interno dopo le sue annotazioni per fare un giro e vedere che cosa aveva fatto del vecchio posto.

      Terminò con una fiorettatura, facendo eco a quel grande eroe che era per lei, e per tutti, John Fitzgerald Kennedy.

      “Quasi sessant’anni fa, John Fitzgerald Kennedy è stato eletto presidente. Il suo discorso inaugurale è uno dei più fantastici e citati mai tenuti. Tutti voi sapete che in quel discorso ci ha detto di chiederci non cosa il nostro paese può fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per il nostro paese. E sapete una cosa? C’è un’altra parte di quel discorso, meno conosciuta, che mi piace altrettanto. Sembra particolarmente appropriata agli eventi di oggi, e voglio lasciarvi con quelle parole. Ecco cos’ha detto Kennedy.”

      Fece un respiro profondo, sentendo nella testa le pause che si era preso Kennedy. Voleva ripetere l’esatta formulazione.

      “Facciamo sapere a ogni nazione,” disse, “che ci auguri il bene o il male… che pagheremo qualsiasi prezzo… ci addosseremo qualsiasi peso…”

      Nella folla, l’esultanza era già cominciata. Lei agitò una mano, ma non servì. Avrebbero fatto così, e il suo lavoro adesso era andare incontro al gonfiarsi crescente della loro esplosione, in qualche modo prenderne le redini e portarlo fino al traguardo.

      “Affronteremo qualsiasi avversità…” urlò.

      “Sì!” urlò qualcuno, in qualche modo tagliando il rumore.

      “Supporteremo qualsiasi amico,” disse Susan, e sollevò il pugno in aria. “E andremo contro ogni nemico… per assicurarci la sopravvivenza e il successo della libertà!”

      La folla era salita in piedi. L’ovazione andò avanti.

      “Questo promettiamo,” disse Susan. “E altro.” Fece un’altra pausa. “Grazie, amici. Grazie.”

      * * *

      L’interno dell’edificio le dava i brividi.

      Susan si spostò per i corridoi con il suo contingente dei servizi segreti, Kat Lopez, e due assistenti che la seguivano. Il gruppo superò le porte dello Studio Ovale. Solo trovarsi lì su di lei aveva un effetto strano. Lo aveva già sentito, appena una settimana prima, quando per la prima volta le avevano fatto fare il giro della Casa Bianca rinnovata. C’era un che di surreale nella cosa.

      Non era cambiato quasi niente. In parte si trattava di questo. Lo Studio Ovale sembrava lo stesso dell’ultima volta che l’aveva visto – il giorno in cui era stato attaccato e distrutto, il giorno in cui Thomas Hayes e più di trecento persone erano morte. Tre alte finestre, con le tende tirate, che ancora davano sul giardino delle rose. Vicino al centro dell’ufficio, si trovava un comodo salottino su di un lussuoso tappeto adornato con il sigillo del presidente. Persino la Resolute Desk – un dono vecchissimo del popolo britannico – era ancora lì, al suo solito posto.

      Certo, non era la stessa scrivania. Era stata ricostruita a mano a partire dai disegni originali a un certo punto negli ultimi tre mesi in una falegnameria della campagna gallese. Ma era questo il punto per lei – tutto sembrava esattamente uguale. Era quasi come se il presidente Thomas Hayes – più alto di chiunque attorno a lui di almeno dieci, undici centimetri – potesse entrare in qualsiasi istante e rivolgerle il suo solito cipiglio.

      Era traumatizzata? La innervosiva, quell’edificio?

      Sapeva che avrebbe preferito vivere all’Osservatorio navale. Quella maestosa casa antica era stata casa sua negli ultimi cinque anni. Era luminosa, aperta, e ariosa. Lì si trovava a suo agio. In confronto la Casa Bianca – soprattutto la residenza – era scricchiolante, eccentrica, malinconica e piena di spifferi in inverno, con una pessima luce.

      Era un posto grande, ma le stanze sembravano anguste. E c’era… qualcosa… in quel luogo. Sembrava di poter svoltare l’angolo e imbattersi in un fantasma. Un tempo pensava che sarebbe stato il fantasma di Lincoln o McKinley o persino Kennedy. Ma adesso sapeva che sarebbe stato Thomas Hayes.

      Si sarebbe ritrasferita all’Osservatorio navale in un battito di ciglia – se solo non l’avesse ceduto. La sua nuova vicepresidente, Marybeth Horning, ci si sarebbe dovuta trasferire nei prossimi giorni. Sorrise quando pensò a Marybeth – la senatrice ultraliberale del Rhode Island – che il giorno dell’attentato a Mount Weather era in viaggio d’inchiesta sulle violazioni dei diritti civili in aziende agricole che producevano uova dell’Iowa. Marybeth era un’aizzatrice per i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, dell’ambiente, per tutto ciò di cui importava a Susan.

      Elevarla al ruolo di vicepresidente in realtà era stata un’idea di Kat Lopez. Era tutto perfetto – Marybeth era una chiara esponente così di sinistra che nessuno a destra avrebbe voluto vedere Susan uccisa. Si sarebbero trovati col loro peggior incubo come presidente. E sotto le nuove regole dei servizi segreti, Susan e Marybeth non si sarebbero mai trovate nello stesso luogo nello stesso momento per il resto del mandato di Susan – da qui l’assenza di Marybeth ai festeggiamenti di oggi. Era un vero peccato, perché


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