Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo
bianchi che ancora le restavano facevano corona intorno ad un volto che sembrava infantile.
Ella comprese quale impressione dolorosa la vista di quella gonfiezza gli avesse prodotta e volle attenuarla.
— Oh qui non mi duole! — e con un dito si toccò con disprezzo la guancia. Vi produsse una cavità livida che rimase anche quando ella ritirò il dito. Quello non era nulla, gli spiegò, e non le dava sofferenze. Soffriva molto ai polmoni, non aveva aria a sufficienza. Era probabile che così si morisse. Trovandovisi tanto vicina, andava studiando il mistero della morte.
Egli cercò di provarle che s’ingannava e avrebbe dovuto essergli facile trovandosi di fronte alla nozione tanto imperfetta della malattia, ma non sapeva mettere tutta la sua intelligenza a ingannarla. Ella moriva, questo era il doloroso, non ch’ella lo sapesse. Aveva compreso che non v’era più rimedio. S’informava ancora di altri sintomi sempre sperando di scoprire degli indizi di benignità. Invano; si trattava proprio di un organismo che andava in isfacelo. Ella aveva sofferto già da anni di disturbi nei quali un occhio esperto avrebbe forse riconosciuto la malattia organica che ne era causa. Anche quando si avvide di avere qualche poco di gonfiezze ai piedi non s’era rivolta al medico, un po’ per ignoranza e molto per riguardo e per economia. Quando finalmente s’era consultata con lui, egli l’aveva fatta rimanere a letto; non s’era alzata più, dicendo che vi si sentiva meglio che in piedi e che le ripugnava di vestirsi per vedersi il corpo sfigurato a quel modo. Ora non poteva più moversi. Quello che non aveva fatto la malattia era stato compiuto dall’inerzia e dalla mancanza d’aria pura. In quella stanza si soffocava. Allorché per un istante erano state aperte le finestre, era giunto fino ad Alfonso un soffio dell’aria di fuori, balsamica in confronto a quella della stanza.
— Giacché lei c’è qui posso ritornare in orto. Se avessero bisogno di me basta che picchino alla finestra, — disse Giuseppina e uscì.
— È l’infermiera? — chiese Alfonso. — E di solito ti lascia così sola come ti ho trovata poc’anzi?
La madre gli spiegò che l’aveva presa in casa da un mese anche perché la rimpiazzasse in quei piccoli lavori ai quali pur era d’uopo provvedere.
— Così la tolsi alla più squallida miseria. Mi pareva tanto buona e attenta!
Egli rilevò quell’imperfetto che accennava ad un presente in cui l’opinione su Giuseppina doveva essersi mutata, ed era tanto evidente che attorno a sua madre regnava un’incuria e un’indifferenza grande, sproporzionatamente alla gravità del male di cui moriva, che, incapace di frenarsi, egli scoppiò in singhiozzi.
Ella comprese perché piangesse, e, avendo immediatamente le lagrime agli occhi anch’essa, lo abbracciò stretto per ringraziarlo della manifestazione d’affetto a cui doveva essere poco abituata.
— Adesso ci sei tu e non ho bisogno d’altri.
Per tranquillarla volle indicare tutt’altra ragione allo scoppio del suo dolore e si lamentò che non lo si fosse avvisato prima perché egli avrebbe portato con sé qualche bravo medico della città il quale l’avrebbe fatta guarire prima e le avrebbe risparmiato molte sofferenze. Ma le sue parole non riuscirono che a commoverla maggiormente. Piangeva e il povero corpo a mezzo inanimato rimaneva immobile come inchiodato; la sola testa si piegava sul guanciale per avvicinarsi a lui.
Spaventato della commozione in cui l’aveva gettata, le assicurò che ben presto, con l’aiuto del medico che voleva chiamare quel giorno stesso, sarebbe guarita. Del resto incapace di rassegnarsi a quella situazione disperata, per quanto poco potesse ancora sperare, voleva pregare Prarchi di venire lui a curarla.
Ma ella aveva la mente più solida del figliuolo. Gli proibì di far venire altri medici perché ella ne aveva a sufficienza di quello che veniva a trovarla. Voleva morire in pace, e, presa fra le sue una mano di Alfonso, se la portò alla guancia e per poggiarvi la testa, con sforzo immenso si gettò su un fianco. Poi pianse chetamente senza singhiozzi, celandosi gli occhi con una mano.
Era proprio finita. Quale miracolo avrebbe più potuto regolare quel corpo che muovendosi gli si era rivelato informe del tutto?
Giacché salvarla non si poteva più, egli fece dei tentativi per distrarla. Come se vi desse importanza le chiese quali medicine le fossero state date.
— Dovrei prendere di quella, — gli rispose ella, — ma non ne voglio perché mi fa male. Dopo presa, oltre la difficoltà di respirare mi capitano giramenti di testa... qualche volta anche le convulsioni.
Ella non aveva ancora liberi gli occhi dalle lagrime che alzò il capo con vivacità e con malizia, sorridente, gli chiese:
— Diventi presto direttore? Come va alla banca?
Appena allora entrò il notaio e disse anche d’essere stanco per la corsa che Alfonso gli aveva fatta fare. Il buon uomo invece aveva la respirazione calma e sulla sua fronte increspata e bassa non v’era traccia di sudore.
Rimproverò e acerbamente Alfonso di aver fatto piangere la signora Carolina.
— Ella è intelligente e dovrebbe capire che le può far male.
— Ho pianto io, non è lui che mi ha fatto piangere, — disse la signora Carolina.
Ma Mascotti non udiva e ripeteva le stesse frasi forse lieto di potersi mostrare zelante mentre Alfonso soffriva al vederlo rumoreggiare senza riguardi in quella stanza come se si fosse trovato in piazza.
Con una risoluzione di cui non l’avrebbe ritenuta capace, per interrompere quel gridio, a voce alta la signora Carolina dichiarò che stava benone e premette il polso della mano sinistra di Alfonso; aveva ancora sempre sotto il suo capo la destra.
Alfonso avrebbe avuto il desiderio di sfogarsi con Mascotti, rimproverarlo di non averlo avvertito prima e fargli capire che non era soddisfatto del modo con cui la povera ammalata era stata trattata, ma per il momento non poteva. Provò una certa soddisfazione all’accorgersi che Mascotti stesso doveva sentirsi colpevole visto che cercava di scolparsi. Senza che nessuno lo avesse interrogato sulla ragione che lo aveva indotto a lasciar ignorare ad Alfonso la malattia della signora Carolina, disse che gli era sembrato inutile di avvisarlo, visto ch’essa era stata sempre in buone mani e ripeté questa frase come per far tacere qualcuno che avesse asserito il contrario. Egli veniva a farle visita ogni giorno, ben volontieri s’intende, e la Giuseppina ch’egli le aveva messo accanto era una buona infermiera.
Questo, che forse era vero, parve ad Alfonso tanto poco, che non seppe trattenersi e dinanzi alla madre lo rimproverò: — Avrebbe dovuto prevenirmi! — e lo guardò con sdegno proprio per fargli comprendere che aveva da fargli anche altri più gravi rimproveri.
— E la sua carriera? — chiese Mascotti. — Io, quale suo tutore, dovevo pur aver cura che non la interrompesse.
La signora Carolina non aveva badato a questi discorsi:
— Adesso capisco, — e sembrava che lungamente avesse studiato silenziosa, — adesso capisco perché hai l’aspetto tanto mutato. Vesti tutt’altrimenti. Ti sei messo alla moda. — Rise lieta di scoprire nel figliuolo l’apparenza da signore. Ammirò pezzo per pezzo, dal solino rigido fino al taglio dei calzoni, e così la discussione fra Mascotti e Alfonso venne interrotta. — Non abbandonata però, — pensò Alfonso, che avrebbe voluto trovare qualcuno su cui vendicarsi.
Poco dopo venne il dottor Frontini, un bel giovine vestito ricercatamente, dal volto ovale regolare ma troppo regolare e i mustacchi folti di color bruno con qualche bagliore d’oro. Fu cortese con l’ammalata ma, e gliene derivò un sentimento di antipatia per il dottore, Alfonso comprese ch’ella lo temeva. Ella giurò di aver presa la pozione due volte in quel giorno, mentre a lui aveva confessato che dalla sera innanzi non l’aveva toccata.
Come Alfonso più tardi apprese, il dottor Frontini era un giovine che aveva esordito in una grande città ove però, forse per mancanza di aderenze, non aveva saputo conquistarsi una clientela sufficiente e sbalestrato al posto miserabile di medico condotto si credeva uno spostato e non amava i suoi clienti.