Viaggio di un povero letterato. Alfredo Panzini

Viaggio di un povero letterato - Alfredo Panzini


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a pèrdita d'òcchio; e la bianchezza dei buoi si moveva già per ròmpere le stòppie, nella frescura dell'alba. Dolce mattino geòrgico! oh palpitare del lago di Virgìlio!

      Quanti sècoli sono, o inesàusta terra d'Itàlia, che tu in lùglio dài tuoi belli esami, combatti le tue buone battàglie!

      *

      Il signore chiuso. Ad un tratto — andavo su e giù pel corridòio — sento disperatamente picchiare sui vetri, dietro di me. Mi volto. Vedo dietro il cristallo un signore che gestisce così comicamente che quasi mi viene da rìdere. Ho capito. È un viaggiatore che è rimasto chiuso dentro lo scompartimento. Mi prega, a cenni, perchè chiami qualche guàrdia, che venga a liberarlo. Percorro il treno. È deserto. Giungo, infine, al bagagliàio, e lì trovo le guàrdie dormienti nelle disperate attitùdini dei custodi del Santo Sepolcro. Svèglio i dormienti nella notte. Il signore chiuso viene liberato: mi stringe la mano con effusione. Si era fatto chiùdere apposta per dormire con più sicurezza di non essere disturbato; ma la guàrdia si era addormentata alla sua volta.

      «Non deve mica essere diffìcile assassinare uno in treno!»

      Perchè formai questo pensiero?

      *

      Quali dolci colli si profìlano in lontananza? Dove siamo? A Vicenza?

      Mi sta in mente che debba èssere una città soavemente idìllica, Vicenza. Pallàdio mi fa rima con Arcàdia, e Fogazzaro con Sannazzaro; e l'abate Zanella, che fu di certo un nòbile ingegno, mi richiama in mente gli antichi abati incipriati e galanti del Settecento. Ma la colpa di queste deformazioni è dovuta al ricordo di un caro signore, che io conosco e rivedo ogni estate, e si chiama signor colonnello. Ora vive in dolce pace nella sua villa, e si ricorda della vita militare e della guerra come di un'altra vita. Egli, al mattino, mette in òrdine i sassolini, i vasetti dei fiori, le statuine pei vialetti della sua villa; poi tutto lindo e bianco come le sue statuine, va su e giù pei vialetti leggendo un libriccino di poesie, le poesie dello Zanella. Mi augura il buon dì e — fra l'altro — mi dice:

      «Leopardi, Fòscolo, Carducci e compagnia bella, riverisco, riconosco, ammiro, ma non sono per me. L'Astichello, questi pensierini soavi, tèneri, religiosi, queste belle armonie, creda mi fanno bene. Quanta pace....»

      Ed ecco perchè lo Zanella mi diventò un poeta del Settecento: e Vicenza con l'Astichello una cittadina arcàdica.

      Sopra Vicenza c'è' Asiago, i sette comuni di Asiago: «Colònia linguìstica straniera nel territòrio linguìstico», come è spiegato in un manuale di letteratura italiana. Ma che bàrbaro italiano.

      E allora mi tornò alla mente un mio compagno di collègio al Marco Foscarini di Venèzia, il quale era di Asiago, parlava tedesco e si vantava di èssere discendente dei Cimbri. Gherardo era il suo nome, ed anche nell'aspetto era quasi cimbro: massìccio, alto, occhi freddi, cèruli, capelli irti di un biondo pàllido. In quei tempi in cui nelle nostre scuole tutto era tedesco, dalle edizioni Taübner al bastone Jäger, quel mio compagno Gherardo era molto stimato dai professori. Egli poi aveva instituito in collègio una spècie di Santa Vehme o tribunale secreto, da cui io subii molte condanne. Le mie tènere spalle prèsero molti e segreti pugni: mai però volli riconòscere l'autorità della Santa Vehme.

      Mi sorrise allora l'idea di vedere Asiago che è in alto su l'alpe; ed altresì di strìngere la mano al mio compagno Gherardo. «Di Sante Vehme — diceva fra me — ne ho conosciute poi tante che non è il caso di serbar rancore per quella che tu fondasti in collègio. Qua, dunque, la mano, amico, e beviamo insieme.»

      Così gli volevo dire, rivedèndolo ad Asiago.

      La ferrovia, a rotaia dentata, che conduce ad Asiago, dìcono che sia molto interessante; e anche questo costituiva un motivo per discèndere alla prima fermata.

      — Scende o non scende? — mi disse bruscamente la guàrdia a Vicenza.

      — Sissignore, scendo.

      — Allora fàccia presto perchè il treno parte sùbito.

      Scesi: ma appena il diretto si fu dilungato via, quasi ne ebbi pentimento. Tutto chiuso, buio, tutto addormentato ancora alla stazione di Vicenza.

       IL MATTINO A VICENZA.

       Indice

      Vicenza: circa ore cinque del mattino.

      Esco dalla stazione: oh, che bel piazzale verde, solenne, boscoso dietro la stazione! Esso è compiutamente deserto. Mi siedo sopra una banchina. Di contro, da un'enorme parete verde di altissime piante, ecco perfora la incandescenza del sole nascente. Apro la valìgia: sturo la bottiglietta, contenente vero caffè, caffè con la caffeina; sturo e libo lentamente di contro al sole.

      Delizioso! il caffè, la caffeina, il sole, il mattino di lùglio; la solitùdine del luogo, deliziosa. Fa male il caffè con la caffeina? bisogna disarmare il caffè, come scrive il dottor Ry? bisogna disarmare il vino? Altre cose più feroci, piuttosto, bisognerebbe disarmare! Ah, ma noi siamo gente pacìfica, e disarmiamo il caffè e il vino innocenti.

      Lodo la mia saggezza e la mia previdenza di avere condotto meco così opportunamente quella bottiglietta di caffè: lodo anche la mia personale abilità nel preparare il caffè; sopratutto lodo il tappo, il quale nel percorso Milano-Vicenza ha tenuto fermo: il caffè non l'hanno bevuto le camìcie e i fazzoletti; ma lo bevo io, ed è assai buono. Questa volta sono molto fortunato. Di sòlito i tappi che io metto non tèngono mai; ovvero calco troppo, e si rompe il vetro: così che in un modo o nell'altro tutti bèvono all'infuori di me. Ma questa volta bevo io.

      È un frescolino gentile ed il cielo è di una purità incantèvole, quasi ingènua. È l'ora che il buon Dio fa la toilette al mondo quando gli uòmini dòrmono? Nessuno mi proibisce di pensare al buon Dio; e nemmeno mi è proibito di crèdere che questo bellìssimo sole apra la sua enorme palpèbra, e sorrida, fra il fogliame, tutto per me. Accendo un mezzo toscano ed elevo il suo incenso contro il sole. Anche il toscano è buono, e il mio pensiero va con riconoscenza verso la anònima sigaràia che lavorò onestamente, e non lasciò cadere capelli dalla cuffietta.

      Facciamo un breve esame di coscienza; ciò terrà le veci di una preghiera mattutina: io ora guardo con giòia il sole.

      Io posso ancora gustare il piacere di un òttimo caffè.

      Io posso ancora fumare un mezzo toscano; e fra poche ore sarò in grado di fare un'òttima colazione. Dunque accontentiàmoci.

      Sì, è vero: molte volte ho desiderato di «non èssere»; ma questa mattina sono di opinione contrària, e desìdero di rinnovare il contratto di locazione su la superfìcie del mondo.

      Io godevo appena di questo pensiero, quando un'ombra mi passò davanti, e mi sovvenni di quelli che vivèvano un tempo nel sole, su la superfìcie del mondo, e sono adesso nell'ombra; e mi sèmbrano darsi la mano, e gli ùltimi scomparsi sono più vicini, vicini a me, ed io sento ancora il contatto delle gèlide e care loro mani. I più lontani scomparsi mi affèrrano e dìcono: «non ti scordare di noi!». E più tormentoso è un senso penosamente oscillante, che mi fa dubitare se la morte sia interamente la morte o se la vita sia la morte. Certo lui non è più. Ma perchè così cupa è l'imàgine tua, caro fanciullo? Fosti così ridente nei dieci anni della tua breve vita! Ed anche la madre mia non è più. Ella, invece, non è cupa imàgine: talvolta mi sorride, non so perchè; mi sorregge ancora, mi par di sentire queste parole: «Su, coràggio!».

      Certo però quei capelli grigi sono voluti andar dietro a quei mòrbidi rìccioli biondi. Ah, sole, sole, tu non le essiccherai facilmente queste lagrime!

      La vòglia di salire ad Asiago era tutta scomparsa.

      Non c'era nessun treno allora in partenza; perchè quando insorge questo spàsimo convulso del dolore, sento una necessità di fuggire, fuggire.

      Ma ecco per ventura giunge un carrozzone


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