Viaggio di un povero letterato. Alfredo Panzini

Viaggio di un povero letterato - Alfredo Panzini


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— mi si risponde — e poi ritorna ancora alla stazione.

      *

      Oh, dolce Vicenza! me ne sta tuttavia la visione nel cuore. La città dormiva ancora, e il tram mi faceva passare davanti agli occhi un'armonia di case, casette antiche, istoriate, scure, adorne di bìfore ed archi; e infra mezzo festoni di verdura, e tronchi schietti sorgenti, con la pompa delle chiome verdi su nel gran sereno; e poi acque verdi correnti; e gerani, gerani, fiammanti gerani, come una giovinezza della natura che sorride sui neri balconi. Tutti balconi fioriti. Una giovinezza e una decrepitezza in caro abbracciamento. E stando il tram fermo per qualche minuto, mi affissai nella chioma tonda di un pino che campeggiava nel cielo: e insensibilmente mi parve che si movesse per ritmo di danza, come una fèmina. Eppure l'ària era senza vento.

      Sorrisi di letìzia naturale. Oh, Itàlia! Vicenza, cara città itàlica! Ma per capire la ragione di questa mia letìzia, bisogna considerare come io avessi lasciato poche ore prima Milano: Milano enorme, pesante di cemento, con le vie nuove alla tedesca.

      Ma già la città si destava, qualche negozio era aperto: svelto, barcollando sotto il peso del «bigòl», passàvano le contadine col loro cappellùccio: odor di maggiorana; vasi di rame lucenti, colmi di latte; e un cinguettar di richiami, di saluti cadenzati: «Buon dì, ciciricì!».

      Ad un tratto stupii: davanti ai miei occhi dilatò una piazza con palagi regali, eccelsi: cùpole, domi, logge si incendiàvano ai raggi del sole. Ricordai: lì era stata Venèzia, la Serenìssima. Gente togata e guerriera sporgeva fantasticamente da quei palagi.

      — Com'è quel brulichio scuro lì nella piazza? — domandai.

      — Oggi è mercato.

      Il tram mi riportò onestamente alla stazione. Sono le sei e mezzo. I colli Bèrici rilùcono ora di una verdura profonda; le chiome, o tonde, o cuspidate degli alberi (pini, cipressi), dentèllano il cielo, che adesso è di una purità di cobalto intenso. C'è una villa lassù? Una villa settecentesca, con logge e colonne, affrescata dal Tièpolo? Socchiudo gli occhi: vedo tutti i personaggi del Fogazzaro: le dame in tupè bianco: i signori xe tuti lustrìssimi, con bei panciotti a fiorami: sièdono presso una bella fontana, fra quella verdura. Si dòlgono si pèntono di lor dolci peccati, e se li accarèzzano: si scàmbiano motti leggiadri in francese e in italiano venezièvole.

      Ma Franco e Luisa del Pìccolo Mondo Antico non sono lì. Essi stanno in disparte ed immoti: i loro occhi tranquilli e tetri si vòlgono verso la terra, dove siede di per sè, immèmore, la pìccola Ombretta:

      Ombretta sdegnosa del Missisipì.

      Ella porta le pòvere scarpette, cucite da sua madre; ella giuoca immèmore con una sua pòvera bàmbola. Perchè lagrimai allora in quel mattino? Perchè vidi anche la barba nera, il volto tèrreo di Giovanni Segantini che dipingeva con sacri segni quel quadro, dove sopra un cimitero due àngioli sostèngono verso il cielo una pìccola creatura?

       QUATTORDICIMILA MORTI!

       Indice

      Per andare ad Asiago si prende il treno che va a Schio. Ma si scende prima: a Thiene. Poi altro treno sino a.... Non ricordo più il nome. Poi altro piccolo treno, con ruote dentate che salirà l'alpe.

      La pianura si stende ubertosa, ben coltivata, sino ai piè delle Alpi, le quali fanno l'effetto di balzar di colpo minacciose su dalla lìnea dolce del piano. Asiago si nasconde lassù fra quei monti: si trova in una conca verde fra quei monti. Così mi dice la gente. Io ho l'impressione di andare al confine d'Itàlia.

      Questo tratto di lìnea non è compreso nell'abbonamento. Salgo perciò in terza classe. Mi sta di fronte un alpino in montura grìgia: è un fanciullo imberbe, ròseo, sano: ma che mani, ma che piedi! o almeno che scarpe! Ha lo zàino affardellato che ricorda la sàrcina dell'antico legionàrio. I suoi occhi celesti vàgano senza l'ombra di un pensiero. Parla vèneto. Parliamo. Ora va in montagna a raggiùngere il suo reggimento, poi verosimilmente andrà in Lìbia. Certo bisogna sostituire quelli della leva del 1891. Andrà dove lo manderanno, farà quello che gli comanderanno. Molti non sono tornati. Lo sa. Ma i suoi occhi celesti non hanno l'ombra di un pensiero. Ora su le Alpi la vita è faticosa; ma l'acqua è buona, i suoi superiori sono buoni. Per mangiare, essi, i soldati, si fanno la minestra in gruppi di quattro o sei, e la cuòciono con la legna dei boschi; e la minestra è buona.

      Alla stazione di Thiene grìdano i giornali del mattino.

      È scoppiata ancora la guerra nella penìsola balcànica! I giornali ne parlàvano come di cosa probàbile nei giorni addietro. Ma come era possìbile crèderci dopo sei mesi di guerra! E che orrìbile guerra! Allora Bulgaria, Grècia, Montenegro come belve feroci contro quell'altra antica feròcia, che è la Turchia. E adesso Grècia e Sèrbia contro la Bulgària? Gli alleati di ieri sono diventati i nemici di oggi?

      Comunque sia, le prime notìzie dei giornali sono impressionanti. Leggo: I Greci alla riscossa. Istip distrutta dalle artiglierie serbe. Quattordicimila morti nella prima battaglia. Ma le grandi Potenze ne sono indignate. Dunque la guerra è scoppiata contro la volontà delle grandi Potenze! Perchè è scoppiata questa seconda guerra? Compro, apro tutti i giornali: tutti i giornali sono confusi ed indignati al pari delle grandi Potenze. Bisogna supporre che un re o più re, dinanzi ai quali i popoli dìcono, «Evviva, Zìvio, Hurrà, Hoch!», si siano incontrati, e invece di dire: Pace! come fanno di sòlito quando si incòntrano, àbbiano detto: Guerra! No, non pare che sia così. Pare che la guerra sia scoppiata di per sè, per accumulamento di matèria umana esplosiva. Gli uòmini esplòdono dunque anche senza i re? Se fosse vero, sarebbe un fatto molto grave, perchè non basterebbe più abolire i re, come molti consìgliano. Una cosa però è certa: Quattordicimila morti nella prima battàglia. E allora occorreranno quattordicimila casse da morto! Non so perchè guardo in su e vedo la piràmide di quattordicimila casse da morto.

      È orrìbile! Ma la gente nella luminosa carrozza di terza classe, è tranquilla. Guardo il mio dolce alpino davanti a me. È tranquillo. Guardo nei campi le tranquille òpere geòrgiche; i falciatori recìdono con le falci l'altìssimo fieno. Eppure, ora, in un campo del mondo, esìstono quattordicimila morti; una piràmide di quattordicimila morti! occhi spenti, membra inerti! No! no! Io non vòglio lasciarmi vìncere dalla pietà. In natura non esiste pietà. Perchè allora deve esìstere in me? Ma certo è una visione macabra, quattordicimila morti! Per fortuna sono lontani. Via questa brutta visione di quattordicimila morti. Non vuole andar via. Pensiamo allora così: i turchi sono bàrbari, i serbi sono più bàrbari; i bùlgari sono barbarìssimi; i greci sono una mera denominazione e non hanno più nulla a che fare con l'amico Sòcrate.... La visione macabra non va via. Se ne sovrappone un'altra, anzi. Se vi sono quattordicimila morti, logicamente vi sono o vi sono state quattordicimila madri. Esse all'incirca venti o venticinque anni fa, alimentàvano con le loro mammelle quei morti, che allora èrano pìccoli bambini, èrano tènere carni. Molte di quelle madri avranno trepidato e chiamato il mèdico per una pìccola febbre dei loro piccini. Ebbene, valeva la pena di tutto questo lavoro? Questo, niente altro che questo è l'idea fissa, qui. Anche qui nel treno sento che ognuno ha, che ognuno parla del suo pìccolo, del suo grande, del suo dolce, o del suo greve lavoro. Lavora il trenino che ànsima, lavòrano laggiù i falciatori, lavora il sole lassù. Perchè? Io piego il capo sul bràccio: mòrmoro questo nome solo consolatore: Cristo, Cristo, Cristo!

      *

      Il trenino che monta ad Asiago è molto pieno di gente: esso si arràmpica un poco con le sue gambe, cioè con le ruote, ma poi domanda l'aiuto e va per mezzo di una ruota dentata. Naturalmente va su quasi a passo di uomo. È un interessante spettàcolo perchè la pianura sembra sprofondare. E dopo un'ora e più di salita, ecco si apre un immenso pianoro ondulato, una conca di colore come vivo smeraldo, con zone e fàscie lucenti di verde assai più scuro ai confini del cielo: sono i grandi boschi. Ecco appare qualche chalet elegante, qualche stazione climàtica lungo la via, a ridosso dei neri boschi. Qua e là, nello smeraldo intenso dei prati, ecco un rosseggiare di tetti e di ville, e case sparse


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