Viaggio di un povero letterato. Alfredo Panzini

Viaggio di un povero letterato - Alfredo Panzini


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di quel mare vicino delle genti germàniche; ed anche ciò mi irrita. Asiago è l'ùltima stazione. Tutti scèndono. È quasi mezzodì. Il sole scagliava un biancicore abbagliante per le vie, su le pareti intonacate, imbellettate di fresco. Anche ad Asiago attèndono i villeggianti. Gran via vai di alpini giganteschi e di artiglieri enormi, polverosi: sono quassù per gli esercizi di tiro. Ebbene; con tutta la mia avversione per la guerra, adesso i colori delle assise e delle armi italiane a questo confine mi dànno un brìvido di piacere.

      Sentivo il bisogno di rifugiarmi in qualche luogo, fuori da quella luce accecante, da quella vibrazione fresca e incresciosa di azzurro. Una contradizione quella luce e quella frescura! Io non appartengo alla spècie della gente villeggiante, e quegli ingressi di alberghi inverniciati coi portieri inverniciati, che attèndono i villeggianti, mi ripugnàvano. Cercai nelle vie interne della vècchia Asiago qualche rifùgio più confacente ai miei gusti. Un alberghetto semideserto, con grosse tovàglie di bucato, pareti di legno, mi offrì più che non cercavo: stanza di luce opaca, un brodo, uno spezzatino di vitello.

      — Con tegoline?

      Oh, cara parola veneziana, che mi ricorda la giovinezza!

      — Sì. Tegoline e vino bianco di Soave, squisitamente soave. Ma non parlate voi — domandai — cimbro o tedesco?

      — Una volta! Ora tutti si parla veneto.

      Come si beve bene nei paesi degli ùltimi confini del vino, di contro ai paesi della fredda birra! Mi sembrò cosa patriòttica bere molto vino. Domandai notìzie del mio compagno di collègio, Gherardo. La sua famìglia era ragguardèvole e ben nota lassù, ma lui era morto. Morto, ben morto, sicuramente morto, tanti anni fa. Un suo parente venne, e mi narrò anzi la strana istòria di lui: morto come muore l'aereonàuta per mancanza di pressione dell'ària, o, piuttosto, per un sovèrchio di pressione, cioè come uno muore in fondo al mare: vòglio dir questo: che la libertà respirata da lui tutta in una volta, dopo sette anni di collègio, lo aveva ucciso.

      Il vino di Soave stava producendo in me il più benèfico effetto che suole il vino, quello di dormire; quando sobbalzai: pensai che il mio compagno Gherardo era morto, ben morto ed era morto per tutti quegli anni durante i quali io avevo seguitato a bere vino, a bere acqua; a fare insomma, tutte quelle cose che fanno i vivi. In che deplorevole stato dovevi èssere adesso, Gherardo, dagli occhi azzurri! Eppure per sette anni abbiamo portato la stessa montura, abbiamo mangiato alla stessa lunga mensa del collègio, ci siamo nutriti dello stesso òdio; lui dell'òdio sicuro di capo della Santa Vehme; e che aveva i pugni che pesàvano molti chili.

      Quante cose vane!

      Lasciai Asiago nell'ora più calda del pomerìggio. Il trenino di ritorno ora affollato di alpini e artiglieri; essi parèvano anche più titànici dentro il minùscolo scompartimento. Ròsei, felici, chiassosi.

      Prima che partisse il treno, venne un tenente d'artiglieria, elegante elegante, e li interpellò bonariamente con la parola «ragazzi!». Strana parola, ai miei orecchi. Perchè «ragazzi» vuol dire: «chiamati a vivere»; ma nella mia fantasia voleva dire: «chiamati a morire!».

      Ma in fondo a che cosa siamo chiamati?

       BOLOGNA DI NOTTE.

       Indice

      Arrivo a Bologna da Verona; ore dodici e dieci minuti dopo la mezzanotte. L'Hôtel Moderne, o Hôtel Bologna, o Bologna meublé, o comunque si chiama, è tutto occupato.

      — Aspetti bene una mezz'ora, — mi dice un personàggio tutto stilizzato, tutto esòtico, ma con un accento così bolognese che era impossìbile rèndere esòtico. — C'è un signore in partenza, e le fàccio sùbito mèttere in òrdine la càmera.

      — Merci, monsieur le concierge; e nel frattempo andremo a bere una birra.

      Cara, vècchia Bologna, me ne congràtulo per te, e mi dispiace per me. Ti vai stilizzando troppo, e ogni anno di più, ogni anno più esòtica, più Milano; ed io non ti riconosco più. Sei volata via, vècchia Bologna! Vècchia torre degli Asinelli, se hai giudìzio, va là, cadi giù: e anche voi, vècchie torri, cosa ci state più a fare costassù ritte? Dolce San Michele in Bosco, e tu, colle dell'Osservanza! Odor di viole in marzo; in autunno, odor di gaggie. Voi, gente del pòpolo che dicevate: «Torsoà, servitor suus!»; e voi cittadina gente cortese che dicevate, al più lieve urto: «Ehi, ch'al scusa! scusi bene!», dove siete voi? Tagliatelle, che parèvano avere odore di carne dolce di donna, dove si màngiano più? Siete andate via, dolcezza della vita?... O sono andato via io?

      Sei andata via tu, vècchia Bologna, o sono andato via io? Questo era il problema che io meditavo andando a bere la birra.

      Ma il vècchio caffè dell'Arena del Sole c'era ancora come ai bei tempi. Probabilmente da allora ad oggi non si era mai chiuso, anche per la ragione che manca di porte. Anche l'abitùdine gaudiosa di mangiare tra l'una e le due dopo mezzanotte, era rimasta. Però la vècchia sàpida birra Ronzani non si vende più.

      — Spiessbraü! — mi avvertì il cameriere, stilizzato anche lui.

      — Quella acquosa amaritùdine tedesca, che si fàbbrica in quella città?... No, io non la berrò! Un gelato, allora! Ma sapeva di melassa, quel gelato.

      Guardavo attorno. Giovanotti eleganti, uòmini grigi e bianchi, teste chiomate e crani pelati, frammisti a donnine galanti ed eleganti, sotto la luce bianca delle làmpade elèttriche, presso la gran distesa delle tàvole imbandite, sedèvano, si movèvano, conversàvano con amàbile tranquillità. Ma è notte! «Fàcere de nocte diem, far del giorno la notte — mi disse il dottor Balanzone — bononiense est, è cosa bolognese. E poi non vedi? È finito da poco lo spettàcolo, qui presso, all'Arena del Sole.»

      Probabilmente sono andato via io.

      «Non ti ricordi — dissi a me stesso — la gran passione che avevi anche tu pei drammi su la scena!»

      Chiusi gli occhi e la rividi ancora la Arena del Sole, data agli spettàcoli diurni, in un pulvìscolo d'oro e di pòrpora. Tutte le gradinate gremite di donne in pepli bianchi. Intensi silenzi, grida per l'anfiteatro alla passione del dramma. Ma poi, calato il sipàrio, negli intervalli, era tutto un rosicchiar tranquillo di brustolini. Ma allora io non sentivo il cricchiare dei brustolini; e i pepli bianchi non èrano altro che i corpetti delle lavandàie. Allora io ero un fanciullo come è il pòpolo, il quale non sente il dramma se non lo vede su la scena.

      Oh, mio stupore, allora, per l'attrice Teresina Mariani! Era ella un'adolescente bionda che recitava la parte di Ofèlia e Fuoco al Convento, con un'ingenuità deliziosa.

      Ricordo che mi fermai una volta a rimirarla lì, ad una tàvola del vicino caffè, mentre mangiava. «Màngia! La pàllida Ofèlia màngia!»

      «Sì, idiota, le pàllide Ofèlie màngiano, e qualche volta màngiano anche gli uòmini vivi.»

      Poi Teresina Mariani impinguò; faceva su la scena le parti spudorate di cocotte. Poi, morta!

      E perchè, dopo Teresina Mariani, mi balenò davanti la testa chiomata di Quìrico Filopanti?

      Perchè dietro il Caffè dell'Arena, c'è la Piazza dell'otto Agosto, dove nel 1849 furono scacciati gli austrìaci. Quìrico Filopanti ogni anno, arringava il pòpolo. Rivedo una folla di pòpolo e, sopra la folla, l'àbito nero e la tuba di Quìrico Filopanti. La sua misèria era spettrale: ma àbito nero e tuba. Doveva èssere ancora l'àbito che indossò quando fu deputato della Costituente della Repùblica Romana nel 1849. Ma non importa: àbito nero e tuba! «Pàtria, onore, eroi, repùblica clàssica,» èrano le sue parole. E poi «le stelle», perchè Quìrico Filopanti si occupava anche di Dio e delle stelle. Tutte cose che non ùsano più.

      Sentii allora una grande compassione anche per Garibaldi. Perchè?

      Perchè sopra quell'esposizione di tàvole imbandite all'aperto, si


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