Lucifero. Mario Rapisardi

Lucifero - Mario Rapisardi


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Dardi, per via di ben composti ingegni,

       Costringendo, ne accrebbe, e di tal guisa

       Al suo nume obbligò l'etereo foco,

       Che il fulmine del ciel, già paventosa

       Arma di Dio, terror de l'uomo e morte,

       De l'umano pensier schiavo s'è fatto.

       Affascinato da la tenue punta

       D'un magnetico stil, che su dai colmi

       Aërei tetti a vertice s'inalza,

       Giù da le nubi rovinar tu il mira

       Con fragore innocente, e sotto al cenno

       Del tranquillo mortal cercar gli abissi.

       Qui di doppio metal sorger tu vedi

       Piccioletta colonna, a cui di pila

       Dà nome il mondo. Di frequenti, alterne

       Piastrelle, altre d'argento, altre di zinco,

       Fra cui, molle di salsa onda, si spiega

       L'indocile a l'elettro olida lana,

       Con modesto artificio essa è costrutta.

       Dentro ai vari elementi, in questa forma

       Sovrapposti e congiunti, in un momento

       Per innata virtù svolgesi e guizza

       L'elettrica corrente; ai poli avversi

       S'urta inqueta, s'aduna, e quindi e quinci

       Svanirebbe per l'aria inutilmente,

       Se ai due lati non fosse un magistero

       Di metallici stami, in cui bentosto

       La fulgurea scintilla entra, e propagasi

       Precipite, e, fidata al tenue filo

       Che ronzante a l'immenso aere si stende,

       E i lidi estremi ed ogni gente unisce,

       Fende il ciel, passa i campi, il mar penètra

       Qual dèmone; e non pur segni e parole,

       Fidi messaggi del pensier, produce,

       Ma, stupendo a veder, le desïate

       Di chi lungi è da noi care sembianze

       Fedelmente ritratte a noi presenta.

       Ma a che produrre il favellar? Che detto

       Sarà che il vol de l'uman genio adegue?

       Dirò, com'ei, con piccioletto ordigno

       Le alate ore del dì segna e divide?

       E l'elastica e grave aria, che preme

       Su le suddite cose, e il caldo e il gielo

       Con ingegno sottil pesi e misuri?

       O come, armato la pupilla inferma

       Di veggenti cristalli, al ciel li appunta

       Con alto ardir, gli astri gelosi esplora,

       E, penetrando un oceán di fiamme,

       Strappa ai templi del Sol gli ardui misteri?

       La terra, il mar, l'aria sonante, il cielo,

       Tutto ha l'orma di lui, tutto gli cede

       Riverente il governo. Un sol, sol uno

       Maligno error nei regni suoi si ostina,

       E quell'uno cadrà. Più forte io sento

       Favellarmi l'amor; già di mortali

       Forme il fantasma del cor mio si veste;

       Ecco, il sento; ecco, il vedo. Oh! se a cotanto

       Volo, per tanta via, per tanti affanni

       L'uomo mortal contro a l'error si eresse,

       Credi, non pur possibile e secura,

       Ma vicina, imminente, agevol cosa

       È la morte del Nume e il mio trïonfo!—

       Disse, e giù per la china aspra e romita

       Concitato avvïossi. Alto un saluto

       Suonò l'antro profondo, e a lui d'intorno

       Strana e gagliarda un'armonia si desta:

       Ei viene, egli s'avanza;

       Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;

       Non firmamenti, o báratri,

       Ma le tende de l'uom son la sua stanza.

       Sorgete a lui d'intorno,

       O sepolti ne l'ira; e voi, che fate

       Traffico di terreni odî, dal vostro

       Usurpato soggiorno

       Levatevi! Tremate

       Da la cortina dei venduti altari,

       Voi, che potenti di menzogne, il foco

       Del dissidio apprendete; e al reo costume

       De le plebi insensate

       Esca porgete, ed affilate acciari.

       Raggio non ha di lume

       La mente vostra, e non ha tetto o loco

       Per voi la terra, abbenchè vasta. O fieri

       Mastri d'insidie, o neri

       Viventi covi di serpenti, o mostri

       D'error pasciuti e d'uman sangue ingordi,

       Ministri d'ira, apostoli d'errore,

       A terra alfin; costui che viene è Amore!

       Ei viene, egli s'avanza;

       Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;

       Non firmamenti, o báratri,

       Ma le tende de l'uom son la sua stanza!

       O derelitti e miseri

       Figli devoti a povertà, reietti

       Da splendidi banchetti,

       Servi cenciosi a la spezzata gleba,

       Che fertile e ridente,

       Il molle ozio nutrìca

       Di fastosa Ignoranza;

       A voi dura e nemica

       Madrigna, invidiosa

       Pur d'un vil tozzo bruno

       Che pugna duramente

       Con l'affilato dente

       Pria che sfami il plebeo fianco digiuno;

       Schiavi, in piè, tutti in piè; quanti pur siete

       Da le arene di Libia a la restía

       Cuba, asilo di schiavi, e qual pur sia

       Sotto al flagello de l'assiduo sole,

       Crudo signore anch'esso,

       Il color vostro e il crin. Schiavi, in piè tutti!

       Parla cotal parola

       Costui che vien, per cui,

       De l'opre e degli affanni

       Santificati a la feconda scola,

       L'alma e la destra amica

       Di provvida fatica,

       Porger potranno tutti

       De la finor vietata arbore ai frutti!

      Ei viene, egli si avanza;

       Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi!

       Non firmamenti, o báratri

       Ma le tende de l'uom son la sua stanza.

       Voi, che in abietto e vile

       Ozio distesi, il turpe viver molle

       Annoverate dal fuggir de l'ore,

       Schiavi imbelli del core

       Vostro e d'altrui,


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