Lucifero. Mario Rapisardi
Guise prodotto, agil discorre e vola
Il mortale pensier, visibil fatto.
Possa tu sei, che ogni confine, opposto
Fra gente e gente, indomita conquidi;
Fulmine sei, che la funesta e scura
Tirannia de l'error sfolgori e sperdi;
Luce sei tu, per che dovunque e in tutte
L'alme il sorriso d'ogni ver si svela,
Tu, nel commercio de l'idee, le sparse
Genti accomuni; in facile amistanza
Leghi i vivi agli estinti, e in guisa annodi
L'uno a l'altro pensier, l'ieri al domani,
Che la specie de l'uom, devota a morte,
Un sol gigante ed immortal diviene.
Ma qual de l'onda avvien, che d'uno in altro
Vase versata, altra figura assume,
Così, da la contesa alpe ad estranei
Climi varcando il pensier novo, in nova
Forma e in campo diverso e con altr'armi
Contro a un cieco poter sorse, e proruppe.
Trafficata, qual vil merce, passava
Da un giogo a l'altro la saturnia terra;
E i suoi figli rideano. Un rubicondo
Pastore e re, che di Leone il nome,
Ma l'alma avea d'un animal di Circe,
Banchettava su l'are, e il ciel vendea.
Venne un giorno d'oltralpe un battagliero
Frate sul Tebro. Gli bollía nel petto
Il sassonico sangue, e calda al pari
Del suo sangue la fede.—Oh! ch'io nel vivo
Fonte, dicea, de l'evangel di Cristo
Quest'anima disseti!—Io, ch'era presso,
Per man lo presi, e lo condussi in loco
Ove il sir de l'umane alme gioíva
Fra una ciurma di servi, a cui sul crine
Sedea per celia un ramoscel d'alloro,
Una burla su'l labbro, e sol ne l'epa
La libertà. Del buon Leone intorno
Tripudïando oscenamente ignude
Ivan muse e madonne; ed ei, nuotante
Come in un mar di placida quïete,
Sonnecchiava e ridea, mentre, seduta
Sui suoi ginocchi, con la man lasciva
Stazzonando il venía lubricamente
Del Bibbiena una putta, ed esso il Cristo,
In abito or di scalco, or di poeta,
Compartía, strambottando in buon latino,
Cibi a le pance e a l'anime indulgenze.
Su la spalla battei de lo stupíto
Solitario, e gli dissi: Ecco il vangelo!
Arse in cor d'ira e di vergogna in volto
Il generoso, e a le natíe contrade
Disdegnando volò. Folti a' suo' fianchi
Si stringeano i fedeli al suo ritorno,
Dimandando di lui, che il ciel dispensa;
Ed ei tuonò:—Colui, che il ciel dispensa,
L'are insozza, il ciel vende, e Dio svergogna!—
Disse, e dal petto fremebondo il sacro
Abito svelse, e si lanciò nel mondo
Come guerrier contro a nemico armato.
Ululâr contro a lui, contro al pensiero,
Contro a la vita, contro al ciel, gl'ingordi
Lupi di Trento; sibilâr gli obliqui
Rettili del Loiola, e dentro ai petti
S'insinüando, avvinghiâr l'alme; un freddo
Lento velen vi sparsero, sperando
Che sepolta nel sonno, o nel terrore,
L'umana volontà tutta si spenga.
Fu un sepolcro la terra. Un'ara e un trono
Soli sovr'esso; e tutto occhi e sospetti
Sovra entrambi il Loiola: Iddio discese
Umilmente dal cielo; e, perchè alcuna
De le pecore sue non si smarrisse,
Al comando di lui prese il coltello,
E con celestïal garbo l'immerse
Ne la gola di mille. Un mar di sangue
Coprì la terra; il divo manigoldo
Tornò al ciel, carezzò l'insanguinata
Barba, e pago dal suo trono sorrise
Come al settimo giorno. Io nel fumante
Sangue mi astersi, e fulminai la voce.
Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno
Pullulò da la strage onda di vita.
Gemina possa, è libertà: risveglia
Le menti in pria, poi discatena i polsi.
Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme;
Spada non ha chi i suoi diritti ignora.
Ricca d'affanni e d'ogni mal contesta
Egli è certo la vita; e pur qual turpe
Cosa è nel mondo, che al servir s'agguagli?
E qual di tutte è servitù più infesta
Che servir, non volente, al ferreo cenno
D'assoluto signor? Popol che geme
Fra' ceppi, e sente del suo mal vergogna,
Per metà è schiavo, e qual gode e s'oblía
Schiavo è due volte, e d'ogni ingiuria è degno.
Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge,
E a nessun mai de l'opre sue risponde,
Leggi non son, nè cittadini: ai sommi
Gradi i pessimi esalta; il buon deprime;
L'altrui sostanze impunemente invade;
Grandi e piccoli offende; il sangue sparge;
L'onor calpesta: è tutto insomma ei solo.
Nè giustizia miglior, nè più felice
Stato è, per me, dove la plebe impera.
Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna
Testa ha due bocche: a divorar la prima,
A morder l'altra e a maledir dischiusa.
Vile in servire, in comandar superba,
Cieca in ambo gli stati, iniqua sempre.
Miglior però d'ogni governo io tengo
Quel che al centro risiede, e da ogni estremo
Con eguale poter si tien diviso.
Quinci l'empia Licenza, a cui gradito
Cibo è la strage cittadina, e quindi
La Tirannide astuta; ed esso in mezzo
Sta, come ròcca, e per vegliante cura
Campa a un'ora dal male e al ben provvede.
Da l'estrano temuto, e riverito
Al par da' suoi, de la sua gente i dritti
Custodisce e difende, e, pur lasciando