Lucifero. Mario Rapisardi
Fonte di vita e di beltà deriva;
Ma l'occulto Pensier, ch'agita e accende
Tutte cose universe, in varia guisa,
Con poter vario e con legge diversa
Ogni via tenta, ogni regione esplora
Mobilissimo sempre, e tutto aborre
De la tarda materia il peso e il freno;
E quando avvien, che di misteri e d'ombre
L'altra s'avvolge, e, per geloso istinto,
La ragion de le cose occulta e serba,
Ei libero discorre, e si ribella
Ad imposte paure; apre e dischiava
Terre, cieli ed abissi; argini atterra,
Crea, muta, strugge, e a le domate forme
Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime.
Tal, benchè l'un viva ne l'altra, e vita
Abbian comune e necessaria, avversi
Son per intimo ingegno; onde tu vedi,
Che or l'un l'altra soverchia, or questo a quella
Soccomber mostra; eppur son ambo invitti,
Sono eterni ambidue, però che morte
Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose
Da cotanto agitare ordine e vita.
Sparsi per gli antri, e fieramente soli
Vivean gli uomini primi, e nulla amica
Possa lor sorridea, tranne il Pensiero.
Ispide pelli eran lor vesti, e rudi
Selci lor armi e sol conquisto il foco.
Da l'alte culle del fecondo Irano,
Procedendo, spandeansi a mala pena
Sui giapetici piani, e gl'inclementi
Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve,
A nuove lotte s'accingean. Muggía
Dai britannici fiumi alto l'immane
Caval de l'acque, a cui, pari a vorago,
S'apre orrenda la bocca, e al cui sospiro
L'onda gorgoglia e al ciel salta in ruscelli;
Devastando correan l'irte spelèe,
D'umane carni esploratrici, e fuori
Dai frondosi dirupi a l'onde in riva
Calavasi il deforme orso e il velloso
Primigenio mammuto: oscura e pigra
Mole di membra, a cui nemico è il sole;
E tu, sovrano troglodita, astretto
Dal fecondo bisogno, a miglior prova
Sempre volgendo il multiforme ingegno,
Armi e industrie trovasti; onde più lieve
Ti fu il domar co'l lavorato renne
Le nemiche falangi. Apron le nubi
L'inesauste sorgenti, e senza freno
Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono;
Entro al diluvïal baratro immenso
Spariscono le specie, in quel che, armato
Di novella virtù, l'uom passa i mari
Su la prima piròga, e, di recisi
Boschi infrangendo il pian glauco dei laghi,
Fermo vi elegge e men selvaggio asilo.
Ivi, fanciulla ancor, l'Arte s'assise
Pargoleggiando; e, a far men lungo il giorno
D'un che l'alma struggea dentro a l'amore,
Tal gli spirò nel cor dolce un sorriso,
Ch'ei fatto a un punto più gentil, leggiadre
Forme e il pensier nel duro selce espresse.
Però, quand'ei con lungo studio al rito
Del caro amor la sua fanciulla indusse,
Docil vide obbedire ai suoi talenti
Il tenace basalto; a l'agil fianco
Brunite armi precinse, e il flessüoso
Collo di lei, che gli gemea su'l petto,
Incoronò d'inteste ambre e di baci.
Or deggio dir, che, di regnar mal paga
Sovra i campi natii, la curïosa
Mente de l'uom s'insinüò nei cupi
Visceri de la terra, e ai fiammeggianti
Gnomi, che custodían l'ampie miniere,
Rapì il bronzo, indi il ferro, a cui funeste
Armi non sol, ma civiltà l'uom debbe?
Io benedico a voi, fiumi e torrenti,
Che giù dai fianchi dei materni Uràli
L'auree sabbie lucenti al pian recaste;
Ma più a la paziente opra, che il lieve
Stagno confuse e il risonante rame,
Non che a l'assiduo ardir, per cui, dal duro
Abbracciamento mineral divelti,
S'arresero i metalli a l'uom tenace.
O pensiero immortal de l'uom che muore,
Te da prima io conobbi, e quinci unito
S'intrecciò a' fati umani il mio destino.
Bruco, che il corpo infermo, a mala pena,
Per intima virtù svolge dal primo
Involucro, e, a la dolce aere credendo,
Crisalide novella, il picciol volo,
Co' fior de' campi il suo color confonde,
Tal de l'uomo è il pensier: s'apre a fatica
Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco,
E cammina, cammina, e a nullo iddio
Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine.
Ultimo forse e più perfetto anello
De la catena universale, ei tutto
Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana
Mutabil cosa e de la terra è il vero.
Ahi! che un morbo fatal l'alma gl'invase
Fin da' giorni suoi primi, ed ombre e morte
Gli gittò sovra il capo, in cor, d'intorno!
Tremò a l'aspetto de l'eterno, immenso,
Fluttuar de' creati esseri il mesto
Figlio de l'uom, che riprodotta e viva
Non pur vedea nei circostanti oggetti
Tanta lite incompresa e tanto affanno,
Ma dentro al cor, dentro a le vene, in tutta
L'esistenza sua poca iva ammirando
Un perpetuo agitar d'odio e d'amore.
Di fantastici mostri e di chimere
Popolò quinci il mar, l'aria, la terra,
Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un'ombra
Vide e un mistero, o una maggior possanza,
Là piegò la cervice e pose un Dio.
Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo
E tiranno de l'uom, da cui soltanto
Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari.
Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto