Lucifero. Mario Rapisardi
fa gioco
De l'umana ragion; ma quest'azzurro
Cielo e quest'aure e questi monti io giuro,
Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra
La ragion sederà; largo e securo
Spiegherà il vol su' mal temuti errori
Il redento intelletto; e allor che tutto
Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca,
Questo ignaro di sè dio de la terra
Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero
A cercar non andrà larve e paure!—
Disse, e partía; ma lo rattenne un detto
Del pazïente Prometèo:
—S'hai grande
E pari, ei disse, agli alti accenti il core,
Deh! non partir così, quando m'hai dèsto
Tale un desío, che a lo sperar somiglia.
Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore
Del mio soffrir fu la speranza, il tempo,
Che co' fulmini suoi Giove sedea
Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo
Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni
E col disprezzo mio la sua paura
E la sua crudeltà, però che immite
Più chi regna divien quanto più trema,
E dei fiacchi è virtù l'esser crudele.
Solo di tutti io l'avvenir vedea
Securamente, e de la sua caduta
Presapeva il destin. Godi dei tuoi
Vani, äerei rimbombi, io gli dicea,
O spensierato usurpator del cielo;
Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo
Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro
Come fil non ritorto, e me da questi
Ceppi redimerà; nè ti varranno,
Credi, i fulmini allor, chè assai più salda
Sarà del fulmin tuo la sua possanza.
Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo
Dei vaticinii miei sperdeano i venti!
Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno
Tiranno altro successe, e meco avvinto
Restò in preda agli affanni ogni uom mortale.
Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto
E dopo assai di mali esperimento
L'alta speranza mia; nè agevol cosa
È il ridestarla, ed utile per certo
Non mi saría, quando più tetro e fiero
Sembra il dolor cui la speranza illuse.
Pur, se grave non t'è l'esser pietoso
A chi tanto per l'uom male sostenne,
Al mio partito interrogar rispondi:
Uom mortale sei tu? Qual t'assecura
O responso, o destino, onde presumi
Condurre a fin tant'onorata impresa?
Non t'illude il voler, che dei più saggi
Tal tiranno si fa, che par destino?
Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,
Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue?
E se fondi in altrui le tue speranze,
Tanta han virtude ed armonia le genti,
Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio,
Al trïonfo del ver movan secure?
Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto
L'immortal vita inutilmente, e assai
Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.—
—Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose,
La discreta domanda. Uom saggio, in vero,
Io non terrò chi lusingato e spinto
Da una rosea speranza ad ardua impresa,
Pria non libra sè stesso, e con sottile,
Freddo giudicio non prevede, e scerne
I possibili eventi; anzi dà mano
Subita a l'opra, e ciecamente ai casi
Gitta sè stesso e de l'impresa il fine.
Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte
Ti dirò le mie cose e l'esser mio,
Quando a colui che tanti uomini e tempi
Vide, e al fato durò con alma invitta,
Grato è ridir ciò che di gloria è degno.—
Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia
Pensieroso si assise. Alto a l'intorno
Spazïava il silenzio, e in larghi giri
Un'aquila le azzurre aure fendea.
CANTO SECONDO.
ARGOMENTO.
Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento de l'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.
Non da l'Inachia stirpe, o d'alcun mai
Ceppo mortal, così l'Eroe riprese,
Ma da natura, immortal germe, io nacqui
Una a le cose, e da la luce ho il nome.
Dir giusti sensi, o tacer dee chi dritto
Co'l pensier mira; e, chiaramente espresso,
Torna più grato, e pregio doppio ha il vero.
Però di studïose ombre e d'enimmi
Non cingerò il mio dir, chè nè maestro
Di misteri son io, nè a disdegnosa
Anima, che a sdegnosa alma favelli,
Dubbio o coverto il ragionar si addice.
Nuovi non già, ma da la turba illusa
Negletti veri io parlerò. Due sono
Le virtù, che le cose hanno in governo:
La Natura e il Pensier; l'una, ch'eterna
Genitrice visibile è di tutto,
La pesante materia ordina e muta
Per suo proprio valor; l'altro la informa
Di spirital possanza, e la solleva
Ad ardui voli e a magisteri egregi.
Ferrea, immota in sue leggi, una procede
Lenta così, che par che giaccia: inalza
Su le rovine, onde si allieta, il trono,
E da l'arida