Lucifero. Mario Rapisardi
or chiuso
Tra' fulmini precipitar su l'ale
Dei rotanti uragani, or sovra al dorso
Dei cavalli del mar correre i flutti
E sfrenar l'onde a battagliar coi venti;
O ver come immortal fremito immenso
Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo
Degli avari terreni, e al vigilato
Solco apparir fra le compiute ariste.
Però quel che Dio fu, quale ancor vive,
E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto
Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino,
O prospero, o maligno, arbitro è solo.
Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero
Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse
E le cose universe, il fronte oppose
Con indomito orgoglio, e una selvaggia
Voce di libertà gittògli incontro,
Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta
Prepossanza di Dio tenne equilibre
Con perenne agitar? Fu la feconda
Lite, che il mar de l'essere commove
Con assiduo flagello, e dai cozzanti
Corpi la luce e l'armonia deriva.
Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto
Padre di servitù, per fiero istinto,
Rubellossi da prima; essa al feroce
Andropòfago Iddio scosse la reggia
Vigilata dai fulmini; e dal fiero
Cozzo con lui tanta favilla emerse,
Che, mutata dagli anni in fiamma viva,
Tutto divorerà dei numi il regno.
O d'ogni libertà fonte primeva,
Madre d'inclite pugne, io ti saluto!
Tu co'l moto la vita, e co'l solenne
Fra le cose de l'alma egregio attrito
Luce dèsti e saper negli intelletti
E co'l saper la libertà, sublime
Pianta, che sol dov'è coltura alligna.
Te da la terra solitaria i saggi
Primamente avvisâr; te, spiratrice
Di terrigeni mostri a Dio rubelli,
Raffiguraro e coltivâr le genti,
E or fosti Isi nomata, or Bahavàni,
Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco,
Or discordia infinita, e, se paura
Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli,
O fur da sacerdoti empî travolte,
Nome avesti d'errore e di menzogna
Tu, che ad onor del vero e de la luce
I misteri del cielo agiti e sperdi.
Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali
Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi.
Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli
Troni d'Olimpo, il nèttare libando
D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna,
Fra le dapi fumanti e le vezzose
Fanciulle che tesseangli inni e carole,
Cura de l'uom gli penetrava il petto.
Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti
Dal comando di lei, che Lite ha nome,
Quanti mai da la terra erano usciti
Terribili Titani, a cui la forza
Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire;
E avventando ciascun li suoi cinquanta
Capi feroci e le altrettante braccia
Contro ai regni di Giove, orribilmente
Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo.
Arse d'ira il tiranno, e forza a forza
Oppose, e vinse. Da le attinte altezze
Precipitâr gl'intrepidi gagliardi
Un dopo l'altro fulminati, e monti
Ed isole parean, che in un selvaggio
Moto la terra, o il mar vorace inghiotte.
Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo
Di cotanta caduta, o sopra a tutti
Sventurato Titano? Eran pur folli
D'Ùrano i figli, ove tenean, che segga
Maggior virtù, dove più grande e saldo
Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto
A pugnar contro a tutti e a vincer basti.
Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza
Di giganti trïonfa, o adamantina
Spada conquide, e solo a la modesta
Continua punta del pensier soggiace.
Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse
Furor d'atre procelle, a poco a poco,
Morsa dal flutto che le geme intorno,
Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi,
E il flutto assiduo del pensier li rode.
Così Giove fu vinto, e in simil guisa
Vinto sarà chi gli successe. Or odi
Quel ch'io feci e farò. Da una malnata
Bordaglia rea, che da natura in dono
Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede,
Ièova ne venne, un implacato iddio,
A cui fulmine è il guardo e tuon la voce.
Solitario e funesto egli incombea
Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto
Dei tremanti mortali, e gran sepolcro
Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo,
Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi.
Io nel cielo era ancor, bello di tutti
Radïamenti. Era sorriso e luce,
Fragranze ed armonie del ciel la vita,
E, cullati in un mar d'ozii e di fiori,
Si tenean tutti e si dicean beati.
Sol'io, spirito inquieto, indifferente
A quell'aprile, a quel banchetto eterno,
Sentía dentro a l'altera anima un vôto
Misterïoso, un mar senza confine,
Come una solitudine infinita
D'intorno a me, dentro di me: se avessi
Conosciuto l'amor, forse in cor mio
Ravvisato l'avrei sin da quel giorno.
Poco mi parve il ciel, misera vita
L'eternità. Di strane opre, di voli,
Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie
Tal m'invase un desío, che sfere ed astri
Corsi, cercai, sempre irrequieto, in traccia
D'un fantasma incompreso, o fosse un'ombra
Del mio stesso pensiere, o una diversa
Immagine con me nata, e divisa
Fatalmente da me. Dove mai,