Lucifero. Mario Rapisardi
dicea, trovar ti posso,
O disïata e necessaria parte
De l'esser mio? Per entro a l'immortale
Anima mia tutto il mortal sentiva.
Infelice mi tenni. A Dio nel fronte
Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai:
Chi m'ha fatto così? D'ira e di lampi
Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero,
Io replicai, l'eterno vero; io voglio
Tutto saper; se il Ver tu sei, ti svela!
Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi,
Nè pugnai già: sentía ch'era più grande
De lo sdegno di Dio la mia caduta.
Quale allor degli antichi astri mi accolse?
Nessun fuor che la terra, e de la terra
Gli oscuri antri più cupi: ivi prescritta
Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio.
Bollía sotto ai miei passi un fragoroso
Mar di liquide fiamme; in gran tenzone
Mugghiando si rompeano onde contr'onde;
Ma più cocenti assai dentro al mio petto
Combattendo bollían dubbî e speranze;
Salde e ferree correan sovra il mio capo
Di granito le vòlte, e assai più saldo
Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque,
Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama e cammina!
Ruppi il carcere mio; l'aria, la luce
De la terra cercai; chi avria potuto
Porre un freno al mio spirto? Ièova m'avea
Fulminato, non vinto. È là, un occulto
Pensier diceami, è là sovra la terra
Il tuo destin, là di tue prove il campo,
Là fra tanto agitar d'odî è l'amore,
Là fra tanto morir la vita alberga!
Mi trasformai la prima volta: ignoto
Corsi la terra, e al caro sole in vista
L'uom, la natura e l'esser mio compresi.
L'uom compresi, e l'amai. Ma allor che prono
A piè dei suoi creati idoli il vidi
Vaneggiar paventoso, e legar tutta
L'anima ardita a un inconcusso altare
M'arse il cor d'ira e di pietà. Sembiante
A vasta e fruttüosa arbore, in mezzo
De la terra sorgea l'egregia pianta
D'ogni umana Scïenza; e Dio, nemico
Del veggente saper, che i tenebrosi
Spirti rischiara, le ruggía d'intorno
Con feroce divieto; onde alcun mai
Coglier non osi ed assaggiarne il frutto.
Fu allor che con sottile arte la mente
Degli uomini tentai: simile a Dio
Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto;
E quel frutto fu colto. Un'orgogliosa
Brama, un'ardente, inestinguibil sete
Di saver, d'indagar l'ombre, che folte
Gli addensava d'intorno il Dio nemico,
Morse gli uomini tutti; e qual più viva
Sentì in cor la mia voce e il poter mio,
E per vie non segnate oltre si spinse
Al confin de la pavida ignoranza,
E interrogò con l'intelletto audace
Le piante e gli animai, la terra e gli astri,
Quei di mago ebbe nome e di ribelle.
Piombò quinci su'l capo ai maledetti
Figli di Cam la collera di Dio,
E assai d'essi perîr, non la pugnace
Virtù, che a l'uom pria la Natura infuse,
Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo.
D'orgogliose speranze io mi pascea
Secretamente, ed oltre un mar d'affanni
Prevedea su la terra il mio trïonfo;
Ma fulminato dal geloso Iddio
Nuovamente io piombai nei tenebrosi
Baratri de la terra, ove il superbo
Sdegno del petto e il mio dolor nascosi.
Ivi scendea talor qualche gagliardo
Intelletto di sofo o di poeta,
A cui fu colpa il propagar le nuove
Apocalissi del pensier mortale.
Rïardea la speranza entro al mio petto
Co'l suo venir, però che per ciascuna
Stella, che al fronte di Sofia s'accende,
De la Fede su'l crin spegnesi un sole.
Così durai gran tempo, e non già pago
De l'esser mio: sempre a me innanzi, ovunque
Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama e cammina!
Ritornai su la terra. Un mansüeto,
Che de l'iroso Iddio credeasi il figlio,
Predicava l'amor. Debole e solo
Egli parea, ma tutta era con esso
L'umanità. Stetti pensoso e muto
Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz'armi
Egli pugnò; vinse morendo: cadde
Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo
E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno
Che tutte dopo a lui volgersi al cielo,
Per cercarlo, vid'io l'anime umane,
E su la terra derelitta e mesta,
Come in carcere vil, gemer la vita;
No, vittoria non è, gridai da l'imo
Petto, e furente mi scagliai per quanta
Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia;
No, vittoria non è questa, che il tempo,
L'opra, il pensier, l'uomo e la vita uccide;
Amor questo non è, ch'entro a una fatua
Luce di ciel nuota ozïando, e il tergo
Cheto soppone a qual che sia flagello!
Braccio e pensier, moto e conflitto è amore;
Campo d'opre comuni e di travagli,
Non èremo la terra; uom, che nel pianto
Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta,
Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo!
Tremâr le infeminite anime al grido
Del mio potere; e Dio, fatto più forte
De l'umano terror, me per la mano
Del suo fido Michel di ceppi avvinse,
E percosso e ferito indi nei cupi
Baratri m'inchiodò; stolto! e si tenne
Securamente vincitor. Dai ceppi,
Dagli abissi io balzai, giovine eterno,