Lucifero. Mario Rapisardi

Lucifero - Mario Rapisardi


Скачать книгу
Vita de l'alma audace e la sventura

       Tua perpetua compagna. E che ti valse

       Al par di te, trar da la creta i Numi,

       Se al cospetto dei freddi simulacri

       Dechinasti il ginocchio, e la superba

       Libertà del pensier serva fu fatta

       Di codarde paure? Or sorgi ed osa:

       Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi

       Son fuor de la Natura, e non ha vita

       Tutto che il vol de la ragion trascende.

       A che tra larve ìnesorate e vane

       Cercare un che t'aggioghi e ti spauri,

       Se muta al cenno tuo trema e si prostra

       La possente Natura? Ama e combatti!

       L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra,

       Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!—

       Tacque, e a l'ardito favellar commosse

       Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi

       La titanica rupe. Era nel monte

       Negra, profonda, solitaria, intatta

       Da umane orme e dagli astri una spelonca

       Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno

       Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi

       Fianchi, qual di commosse ali e di strida,

       Cupamente rintrona. Irati al verno

       Vi piomban da l'opposta erta i torrenti

       Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti

       Mugulando spumeggiano; ma quando

      Giungono al vallo de l'orrenda uscita,

       Perde l'onda il nativo impeto, e pigra,

       Torba, pollente s'impaluda, e manda

       Pestiferi mïasmi a chi la spira.

       Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi

       L'umanato Demonio, e con feroce

       Piglio di scherno a contemplar si stava

       L'orrido sito e il ciel. Da le profonde

       Viscere allor del cieco antro una voce

       Querula, lunga, dolorosa emerse

       Come suon di sospir. Porse l'orecchio,

       E s'appressò l'Eroe, quanto il permise

       L'angusto varco e la stagnante gora,

       Ed ascoltò:

       —Di che perigli in cerca,

       Misero! vai? Che stolta opra e che vano

       Talento è il tuo di proseguir l'impresa,

       Ch'io già per tempo incominciai, spregiando

       La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi

       Son fatto accorto, e di Prometeo il nome

       Mal mi dieron le genti! E che non feci,

       Che non diss'io per questa al pianto nata

       Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda

       Giacea nel lezzo de l'error, sì come

       Belva cibando la caonia ghianda,

       E altra legge nel mondo, altro governo

       Non sapea che l'istinto: ad altri ignota

       E a sè stessa giacea, scherno e vergogna

       De le cose create, e le create

       Cose, ignara di tutto, iva mescendo

       Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi

       Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo

       Io sol più che a me stesso? E non cotanto

       Mi punse il cor la fulminata fronte

       Dei fratelli Titani, e non di sdegno

       Arsi così per l'usurpate sedi

       Del fuggiasco Saturno e pe' negletti

       Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira

       Destommi in cor la tribolata sorte

       Degli umani infelici. Ardito e solo

       Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce

       Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno

       Sprecava i doni al vegetale e al bruto,

       E a l'uom, misero tanto, altro conforto

       Non largía che il morir. Tutto ebbe allora

       L'uomo infelice il mio favor: sol io

       Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti

       Arti e d'opre gentili e di gagliardi

       Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono

       Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi

       Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne

       Premio da ciò? Non che n'aver mercede,

       L'invida rabbia arsi di Giove, e degno

       Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda

       Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi,

       Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci

       Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno

       E favola del mondo. E nè querela

       Movo di ciò; chè il querelar non giova

       A chi esente è di morte; e inesorata

       L'ira è dei Numi, e inesorato al pari

       L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto

       Colser giammai di mie fatiche tante,

       Del mio tanto soffrir le sconsolate

       Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena

       Da la tenebra antica, a l'infinita

       Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco

       Poco a lor parve ogni più grande acquisto;

       Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda

       Diedersi tutte, e del saver la sete

       Arse in loro così l'alma e la vita,

       Che a precoce vecchiezza e ad immatura

       Morte fûr sacre e a maledir condutte

       L'alto mio dono e il sagrificio mio!—

       —Figlio di Temi, a lui rispose irato

       L'inclito Pellegrino, e che perigli

       Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,

       Credi, io mi son, che si rivolta in fuga

       A la prima minaccia, o nauta imbelle,

       Che trema al più leggier spirto di vento,

       E si chiude nel porto. In questa eterna

       Rupe confitto, in verità, tu ignori

       Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei

       Carco di mal, di falsi mali agli altri

       Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia

       Questi vani compianti, e oltre misura

       Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno

       Tolto il senno davver le tue sciagure.

       Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda

       Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,

       La compirò. Non già il saver, t'accerta,

       Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto,

       Ma la nemica a ogni saver, la cieca

       Credulità.


Скачать книгу