La conquista di Roma. Matilde Serao
deputati, tutto questo ne scoteva i nervi. E coloro che si erano preparati a farla da persone spiritose, a giurar come se nulla fosse, tremavano d'impazienza, mentre il loro nome si approssimava, e poi cavavano un fil di voce che faceva, sorridere il vicino e che la folla non arrivava a udire. Qualcuno giocava stizzosamente con la catenella dell'orologio, e quando lo chiamavano, si svegliava come da un torpore, gittava un giuro affogato, frettoloso e ricadeva a sedere. Fra l'onorevole Salviati, un duca fiorentino, e il deputato Santini, giurò, con voce strozzata, che niuno intese, l'onorevole Francesco Sangiorgio.
Sulla porta i deputati si assiepavano a veder montare in carrozza la Regina e il Re. Più fitta, più densa, la gente ondeggiava nella Piazza di Montecitorio tutta soleggiata, e quando la carrozza si mosse e la Regina salutò in giro e il Re agitò l'elmo piumato, dalle strade, dalle case, dai balconi, dai terrazzi, dalle soffitte, un'acclamazione frenetica sorse, si confuse, salì nell'aria bionda, nel sole, sino al cielo.
IV.
Il portoncino segnato col numero 50 in via Angelo Custode, era discosto due botteghe da un palazzo magnatizio, bigio, triste, dal portone chiuso. Francesco Sangiorgio esitò un momento: non vi era nessuno cui chiedere informazioni. Uno dei due battenti del portoncino era chiuso, l'altro socchiuso; il deputato si cacciò per un andito semibuio e vi fece sei o sette passi, sino a che arrivò a un principio di scale. Sentì che erano a chiocciola, e per non correre il rischio di rompersi il collo, accese un fiammifero. Ma al primo piano un po' di luce si fece: al secondo ci si vedeva, quasi. Su quel pianerottolo davano tre porte e sopra quella di mezzo, era attaccato, con due spilli piegati, un sudicio biglietto da visita che portava un nome e un cognome: Alessandro Bertocchini. Sangiorgio consultò il pezzetto di carta che gli aveva dato il sensale delle case: era proprio quel nome. Picchiò.
Per qualche tempo non gli vennero ad aprire: picchiò di nuovo, debolmente. Poi un gran rumore di chiavistelli, di catenacci, di paletti aperti e rinchiusi, s'intese, ma alla porta di destra: e infine, chetamente quella di mezzo, si schiuse un pocolino. Un uomo alto, con un grande naso rosso e due falde di capelli lucidi attaccati alle tempie, comparve: l'onorevole si toccò il cappello e domandò se vi fosse il signor Alessandro Bertocchini. Era appunto lui, l'uomo dal naso peperonico e dal viso scialbo. «Non si affittava un quartino mobiliato, a quel terzo piano?» Il sor Alessandro squadrò l'onorevole Sangiorgio, adocchiò fra lume e lustro la medaglia d'oro e disse: «Sicuro, c'è un quartino da affittare, mobiliato: vado a prendere le chiavi.» E ficcandosi in tasca le mani rovinate dai geloni, piantò il deputato sul pianerottolo. Dalla porta aperta un'anticameruccia si vedeva, con una sedia, un tavolino e un lume: e un odore di stantìo, di casa vecchia, di polvere antica, pizzicava la gola.
«Eccomi qua», mormorò, col suo filo di voce falsa, il sor Alessandro.
E aprì la porta a sinistra. Vi era uno stanzino buio con una sedia: poi una stanza lunga e stretta. Alla lunghezza di una parete era appoggiato un divano di lana cremisi, con la spalliera ed i bracciuoli, di legno tinto e smorto: ai due lati del divano due poltrone di lana cremisi, coperte di pezzi di merletto all'uncinetto: davanti un tappetino consunto. All'altra lunghezza della parete, dirimpetto, era appoggiata una consolida dal marmo bianco, su cui stavano due grandi lampade a petrolio, un orologio fermo e tre fotografie nelle loro cornici. Al muro, uno specchio lungo e stretto, un po' verdastro, nella cui cornice erano ficcate, come ornamento, certe piccole oleografie, rosse gialle e azzurre, il Re, la Regina, e il principe ereditario: accanto alla consolida, due sedie di legno e di lana cremisi. Dinanzi al balcone un tavolino da scrivere, su cui era disteso un tappeto di lana, lavorato all'uncinetto, a stelle verdi, violette, scarlatte, arancione, indaco, in mezzo alle quali era cucita una figurina scarlatta di scatoletta di fiammiferi. Al balcone da cui penetrava una luce scarsa, erano attaccate due grame tende di merletto, che uscivano da un panneggiamento di lana cremisi. Due altre sedie di legno nero compivano il mobilio.
«Questo è il salotto», disse il sor Alessandro, con la sua voce strascicata ed esile, guardando in aria, con le mani freddolosamente cacciate nelle tasche della giacchetta.
Francesco Sangiorgio si accostò al balcone: dava sopra una corte interna, su cui molti altri balconi e terrazzini, e logge coperte tutte di legno, e finestrini sporgevano. Dietro i tetti di una casa un ramo secco di albero spuntava. Dal fondo del cortile saliva un forte odore di cucina, di rigovernatura e di acqua dove avevano bollito dei cavoli. Il sor Alessandro non diceva nulla, conservava la sua aria indifferente, lasciando che il deputato esaminasse il quartino.
La camera da letto era accanto, lunga e stretta come il salotto. Nel senso della lunghezza vi era il letto. Innanzi al letto un tappetino, come nel salotto, e accanto una poltrona di lana azzurra, con una macchia che aveva corroso il colore, nel fondo. All'altra parete un canterano, con un piano di legno un po' macchiato, qua e là enfiato, come se vi fossero stati poggiati dei bicchieri bagnati: sopra, due candelieri di ottone, senza candele. La toletta era collocata nel vano del balcone; anche qui le tende di merletto che uscivano da un panneggiamento di tela a stampa, fondo nero a grandi rose azzurre e gialle. E il lusso della stanza era, sul letto, un piumino di cotone di Cava, color tabacco, lavorato all'ago lungo, con sopra tanti arabeschi di lana multicolori. La catinella e la brocca erano nascoste in un angolo fatto dal canterano, senz'asciugamano, senz'acqua.
«E il prezzo?» domandò l'onorevole Sangiorgio.
«Ottanta lire al mese... anticipate», fischiò la flebile voce del sor Alessandro, mentre si grattava un gelone.
«E il servizio?»
«Vi è la serva: rifà il letto, spazza, spazzola i vestiti e lustra le scarpe. Otto lire al mese..., anticipate», e respirò profondamente, passandosi una mano sui capelli, che sembravano tirati a pulimento di mogano.
«È caro... ottantotto lire».
Il sor Alessandro tacque, non trovandosi forse il fiato necessario a una discussione, o non volendo sciuparlo. Quando stavano per uscire dall'appartamentino, soggiunse soltanto, col naso in aria, come un asino che non può respirare:
«Ingresso libero».
L'onorevole Sangiorgio se ne andò, stringendosi nelle spalle: sarebbe ritornato, forse. Nella strada, presso il Ministero di agricoltura, incontrò la moglie di Sua Eccellenza, quella signora che aveva visto alla stazione. Alta, snella, vestita di nero, chiuso in un mantello di velluto, era tutta rosea e giovanile dietro la veletta nera. Se ne andava con un passo ritmico, con le mani inguantate nascoste nel manicotto, gli occhi chini, come raccolta in un pensiero. Ed era tanta la dignità e la dolcezza di quella figura femminile, che l'onorevole Francesco Sangiorgio, involontariamente, salutò. Ma la moglie di Sua Eccellenza non si accorse di quel saluto e passò avanti, risalendo verso l'Angelo Custode, lungo il marciapiede; e in Francesco Sangiorgio restò un forte dispetto, il pentimento di quel saluto sprecato. Ora, camminava verso la Piazza del Pantheon, verso il secondo indirizzo che il sensale gli aveva dato, e andava per le strade, sempre con quel sintomo di oppressione morale, un peso sul petto, sulle spalle, sul capo, che non arrivava a scuotere dal giorno in cui era in Roma; e nelle vie s'incontrava con gente che aveva anche la medesima espressione di accasciamento.
La casa era alla salita del Pantheon, che va verso Piazza della Minerva: una piccola porta accanto ad un fornaio. Di giù si vedevano due finestre con le tende bianche, fitte. Era al primo piano: tre porte, tutte e tre con nomi femminili, uno di questi scritto con inchiostro violetto e con una calligrafia muliebre, sopra un pezzetto di cartoncino rosa. Alla porta a destra: Virginia Magnani, venne ad aprire una servetta spettinata che guardò in faccia Sangiorgio, senza parlare. Ma dopo un momento sopraggiunse la padrona, una piccolina, con una vestaglia di Casimiro azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio.
«Il signore viene pel quartierino? Va via, Nanna. Si accomodi, si accomodi pure: sono a sua disposizione. Scusi, sa, il modo come la ricevo, ma la mattina non si finisce mai di vestirsi: si va a teatro, qualche volta, con Toto, a sentir la Marini, si fa tardi, la mattina rincresce, naturalmente, di levarsi su...».
Sangiorgio