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innanzi al portone: erano le carrozze dei ministri, dei senatori, del corpo diplomatico, qualche vecchione ne scendeva, sorretto da un servitore e da un segretario, qualche uniforme bianca o rossa compariva, per un istante, poi spariva nel portone.

      Sulla piccola piattaforma, due giornalisti, in marsina e col cappellino floscio, prendevano delle note, i nomi di coloro che passavano: l'uno piccolo, con la barbetta appuntita, bionda e brizzolata di bianco, le lenti d'oro, l'aria imperturbabile: l'altro, anche piccolo, tarchiato, pallidissimo, con un mustacchietto da collegiale e il sorriso di chi disegna qualche cosa di ridicolo, i direttori dei due maggiori giornali romani, che compivano personalmente il lavoro di quella importante giornata, e se la ridevano fra loro, amichevolmente, di quelle teste strane che si vedevan passare.

      Il sole saliva sull'angolo della Pensione dell'Unione, cominciando a conquistare la piazza di Montecitorio e a quella conquista lenta, corrispondeva un moto della gente, come una espansione di contentezza, e ogni tanto la cappa tesa e rotonda di un ombrellino si levava. La processione degli invitati continuava, attraverso il grande circuito libero: ora essi si affrettavano con un principio d'impazienza, spingendosi un poco, sapendo di arrivar troppo tardi, per aver un buon posto. La folla delle strade, dei vicoli, dei balconi, delle finestre, sembrava talvolta come colpita da un'improvvisa immobilità, quasi un incantesimo l'avesse pietrificata, come se una immensa invisibile macchina fotografica stesse fotografandola; e si potevano discernere le facce immote, gli occhi sbarrati, le file ammassate, i bimbi tenuti in collo dalle mamme, una carrozza da nolo, ferma, fra la gente, su cui erano salite venti persone, in piedi. Poi questo incantesimo si infrangeva, la folla aveva quell'agitazione di colori che si muovono, stando sempre allo stesso posto: un movimento circolare, come lo snodamento degli anelli di un lombrico. Un ragazzetto era salito sul piedistallo, alto, dell'obelisco, e di là, attaccato al grosso tronco di pietra, si divertiva a far dei giuochi di equilibrio.

      Infine il sole arrivò alla linea dei soldati, pigliandoli di sbieco: prima ne illuminò le ghette bianche, poi il cappotto turchiniccio, poi il kepì di pelle nera e finalmente battè, linea smagliante, sulle canne dei fucili. E di lontano, un rombo lieve, breve, arrivò: l'eco di una cannonata. E dall'uno all'altro di tutti gli astanti, dai balconi alle finestre, dalle strade ai vicoli, fu un fluttuamento, un sospiro enorme di soddisfazione:

      — Il corteo, il corteo, il corteo, — diceva, sottovoce, con un clamore crescente, la folla.

      Nell'aula fu anche udito il rombo del cannone: per un istante vi regnò un silenzio perfetto. Poi un mormorio crebbe, si elevò, i ventagli ricominciarono ad agitarsi, il chiacchierio sottile e penetrante femminile, il passo di coloro che giravano pel corridoio, cercando invano un posto, il fruscio degli abiti serici, si confusero, si fusero. L'aula era trasformata. Circolarmente, mediante una impalcatura, l'altezza dei settori era stata elevata sin quasi a livello delle tribune, formando così una grande tribuna provvisoria, dove quattro file profonde di pubblico, sedevano proprio dietro le spalle dei deputati dell'ultimo banco; sulle due scale laterali, quelle che gli uscieri conoscono per doverle salire e scendere cento volte al giorno, nelle ore della seduta, erano due falde fittissime di pubblico, due strisce larghe e nutrite che andavano, dall'alto delle tribune, fino giù, nell'aula, le signore sedute sugli scalini, gli uomini che avevano ceduto galantemente il loro posto, addossati al muro.

      Attorno attorno, tutte le tribune erano zeppe, sino alle ultime file; quella della stampa, la migliore per udire i discorsi, anch'essa era stata ceduta al pubblico, i giornalisti erano dispersi, giù ai posti migliori; quella destinata alle signore era pienissima, ma sembrava una ironia, tutti ridevano che ci fosse una piccola tribuna speciale per le signore, quando esse avevano invaso tutto, erano dappertutto, alle spalle dei deputati, fin quasi nell'emiciclo, arse dalla indomabile curiosità muliebre; la tribuna dei militari era tutta un brillare di spalline e di galloni; in quella della presidenza era un gran tender di colli, un arretrarsi di gente desolata, delusa nelle sue speranze; le due tribune erano poste sopra il baldacchino reale, vedevano l'aula, non vedevano il Re, nascosto dalla cupola. E le due tribune grandissime degli angoli, quella del corpo diplomatico e quella dei senatori, rimanevano vuote, nella loro ombra profonda che dava il velluto azzurro cupo, sul fondo a legno delle pareti.

      Nell'emiciclo era scomparso il banco delle commissioni, l'arco di cerchio parallello ai settori; era scomparso il lungo banco dei ministri, quello che gli oppositori a oltranza chiamano il banco degli imputati: il piccolo scrittoio di mezzo, dove i tre stenografi scrivono, dandosi il cambio ogni cinque minuti, non vi era più. Tutto il palco della presidenza era scomparso. Al suo posto, una piattaforma larga a cui si ascendeva per quattro scalini, coperta da un tappeto rosso, si elevava: e su questa un enorme baldacchino di velluto rosso, frangiato d'oro, diviso in tre scompartimenti. Tutto questo rosso prendeva una grande cupezza dalla cupola che si avanzava molto e in quella penombra sacra di cappella, l'oro della poltrona reale luccicava come un reliquiario. A un livello più basso, fuori del baldacchino, a destra e a sinistra, vi erano due altre poltrone per i membri della famiglia reale.

      I deputati stavano aggruppati nell'emiciclo, ritti su per le scalettine dei settori, riuniti presso le due scalee, a discorrere con le signore: alcuni erano saliti all'ultima fila e voltavano le spalle all'aula, discorrendo allegramente con le donne di una grande tribuna di legno, salutando un conoscente, sorridendo a un amico, ammiccando familiarmente a un cliente, a un elettore cui avevano procurato un biglietto. I dialoghi s'incrociavano, leggieri, frivoli, fra quelle donnine piene di frasi puerili, che si meravigliavano di tutto, che rideano di tutto, e quei deputati che cercavano di secondarle. Una signora brunettina, elegantissima, con un cappellino tutto intrecciato d'oro, si faceva indicare i deputati dall'onorevole Rosario Scalìa un deputato siciliano, tutto serio, corretto nel taglio del vestito, con l'aria di ufficiale in borghese, e una piccolissima margherita all'occhiello; e alle spiegazioni tranquille dell'onorevole Scalìa, la brunettina si chinava, guardava con l'occhialetto, appuntando il musetto roseo e ridacchiando. — Oh! era quello l'onorevole Cavalieri, il calabrese, così ingenuamente goffo? — Un patriota? — Sì, capiva bene, ammetteva i suoi meriti, ma aveva troppe decorazioni! — E l'omettino magro, dalla spazzola di capelli biondi tetro e dagli occhi grigi, era quello Guido Dalma, il deputato letterato che parlava alla Camera di Ofelia e alle signore della fondiaria? Perchè non lo facevano Ministro quel Guido Dalma? Ci vuol molto a essere ministro. Ma era veramente una cosa seria, la passione della politica? — E l'onorevole Scalìa, un po' infastidito da quel rapido vaniloquio, cercava di provare alla signora che la politica poteva sembrare un scherzo a chi non la prendeva sul serio, ma che era una nobile passione: ella scoteva il capo, non convinta, ridendo del suo bel riso frivolo, e l'onorevole Scalìa mostrava sul viso una disattenzione crescente, si stancava di quel cicaleccio, guardando l'aula, trattenendosi ancora, per cortesia.

      Il pubblico non s'impazientiva per l'attesa. Le donne erano felici di star sedute, di poter vedere, di poter essere vedute, sarebbero rimaste là fino alla sera, agitando i ventagli crollando il capo per far brillare le perline dei capelli, agitando gli occhialetti da teatro; gli uomini si consolavano, mutuamente, di quella toilette mattinale che avevano dovuto fare e che dava loro un carattere di pura eleganza, qualcuno fingeva l'annoiato, ma gli inviti a colazione circolavano, i convegni al caffè fioccavano, per poter commentare la cerimonia.

       La folla che popolava l'aula e le tribune e i corridoietti e tutto lo spazio dove un uomo può stare, era allegra, con una piccola cima di esaltazione nervosa, un principio di ubbriachezza. Molte di quelle persone non avevano mai visto il Parlamento e fingevano di non guardare intorno, ma in realtà quell'ambiente le esaltava. Pure nulla di gaio aveva l'aula: e conservava il suo aspetto solito. Avevano certo lavato i cristalli del lucernario, ma la luce di quella mattinata bionda vi filtrava malinconica, vi si attenuava, come la luce fredda, biancastra e umida che passa attraverso un acquario; e le pareti color legno, coi fregi di un azzurro cupo, erano fatte apposta per non riflettere nulla, per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione scialba e monotona.

      Così avveniva, affacciandosi da una tribuna, quel tale fenomeno ottico, che è la prima delusione di chi visita il Parlamento italiano: tutte le facce avevano un uguale colorito, si assomigliavano, non si potevano riconoscere le persone: era un insieme monotono, senza disegno, senza rilievo, che stancava la vista, per cui uno si tirava indietro, ristucco.

      Ma


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