La conquista di Roma. Matilde Serao
non capì che fossero quelle costruzioni del sottosuolo. Sì, era maestoso il Colosseo, ma la luce sporca di una giornata piovosa gli toglieva una parte della maestà, mostrandone il lato sudicio e tutto lo sgretolamento del tempo. La campagna attorno, fuori, era vastissima: una vegetazione ricca di campagna umida: ma non un canto d'uccello, non una voce di animale, non la voce di un uomo.
Sotto l'arco di una porta, una guardia municipale comparve, lenta, indifferente, senza nemmanco accorgersi del visitatore. L'onorevole Sangiorgio girò coscienziosamente pel corridoio circolare, un po' scuro. Pensava che forse era più bello di notte, il Colosseo, con la luna che dà un aspetto magico alle rovine e le fa sembrare più grandi, più meste. Aveva fatto male a venirci di giorno, adesso la prima impressione era irrimediabile: il Colosseo gli pareva una gran cosa immensa e inutile; una costruzione di gente orgogliosa e folle. Un signore e una signora, giovane e delicata lei, alto e robusto lui, giravano anch'essi pel corridoio circolare dove si respira l'aria molle e fresca, come in un sotterraneo: andavano lentamente, senza guardarsi, discorrendo sottovoce, con le dita intrecciate. Ella chinò gli occhi, incontrando quelli di Francesco Sangiorgio, e l'uomo si guardò come meravigliato e importunato.
— Figuriamoci che sarà di sera, con la luna! — pensò l'onorevole Sangiorgio. — I romani antichi hanno fatto il Colosseo, perchè gli amanti moderni ci vengano a tubare.
E si strinse nelle spalle, nel suo segreto disprezzo dell'amore; il disdegno del provinciale cui mancò il tempo, l'occasione, la voglia di amare, il disdegno dell'uomo profondamente assorto in un altro desiderio, che non era l'amore.
«Andiamo a Sangiovanni in Laterano?» chiese il cocchiere, pigliando lui l'iniziativa.
«Andiamo pure».
E lo condusse prima a San Giovanni Laterano poi a Santamaria Maggiore, deponendolo fedelmente alla porta. Ma quelle chiese erano più piccole di San Pietro: non lo maravigliarono neppure per la loro grandezza: erano più mistiche, forse, ma la sua anima era chiusa ai dolci misteri della pietà religiosa: egli andava su e giù, come un sonnambulo. All'uscire, il cocchiere, senza neppure più chiedergli nulla, lo portò, al piccolo passo del suo ronzino, rifacendo la via già percorsa, e passando sotto l'arco di Tito, alle colossali terme di Caracalla. Il deputato Sangiorgio non si fermò a vedere le fotografie sulla porta: entrò subito, come preso da un'impazienza.
Le mura salivano, altissime, coperte di cespugli d'erba e di spini, con la solidità che sfida i secoli. Nel mezzo degli stanzoni vastissimi, il suolo aveva ceduto, era diventato concavo, come quello di una vasca, e vi si accoglieva un pantanello di acqua nerastra. Nel fondo della sala dei giuochi e della ricreazione, era una statua seduta, decapitata, una statua di donna pudicamente velata: Igea, forse. Sul lamentevole cielo di novembre si disegnava un altissimo pezzo di muro sgretolato, uno scoglio irto, a picco, che pareva salisse su, su, nella regione delle nubi. Laggiù, nella campagna, restava ancora ritto, elegante, piccolino, un tempio rotondo: a Venere, forse.
L'onorevole Sangiorgio, in quell'ampiezza di ambiente, provava un malessere, aveva un freddo per le ossa, si sentiva piccolo, meschino, e tutto questo lo mortificava, lo umiliava, lo faceva soffrire.
«No,» disse risolutamente al cocchiere, che gli offriva di condurlo sulla Via Appia antica. «Andiamo in città».
Rientrando in Roma, s'abbrividiva. S'imbruniva quella molle giornata di autunno, e a lui pareva di averne addosso tutto l'umidore filtrante, tutto il colore biancastro e sporco, tutto il sottile strato di fango: e parevagli anche di portare in sè tutta la mestizia, tutta la solitudine, tutta la tetraggine di quelle rovine, piccole o grandi, meschine o immani, tutta la vuotaggine, l'indifferentismo di quelle chiese inutili, di quei grandi santi di pietra, che sembravano figure ieratiche senza viscere, di quegli altari, glaciali, di marmi preziosi.
Che gli facevano a lui tutte le memorie del passato, tutti quei ricordi ingombranti? Chi se ne curava del passato? Egli apparteneva al presente, molto moderno, innamorato del suo tempo innamorato della vita, che deve giungere, non di quella che è fuggita, capace di lotta quotidiana, capace dei più forti sforzi per conquistare l'avvenire. Egli non s'indeboliva coi rimpianti, non trovava che le cose andassero meglio prima: egli amava la sua epoca, e la vedeva grande, ecco tutto, più pensierosa, più attiva, più individuale. In quel crepuscolo che saliva al cielo torbido di nuvole, egli si sentiva rimpicciolito, perduto dalla pericolosa, snervante contemplazione del passato; un'oppressione profonda gli scendeva sul petto, sull'anima; certo aveva preso le febbri nell'acquitrino del Colosseo e delle Terme, nell'alito tepido e umido delle chiese.
Ma a Piazza Sciarra i primi lumi a gas lo rianimarono. Un venditore di giornali strillava il Fanfulla e il Bersagliere.
Gruppi di gente erano fermi sui marciapiedi. Una vivezza di vita cominciò a riscaldargli il sangue. Un signore, in un crocchio, davanti a Ronzi e Singer, diceva forte che l'apertura del Parlamento era stabilita pel venti novembre. Le trattorie del Fagiano e delle Colonne, sotto il portico di Veio, erano riboccanti di luce. Attraverso i vetri, parve all'onorevole Sangiorgio di discernere, nella trattoria delle Colonne, l'onorevole Zanardelli, di cui conosceva un ritratto. Invece di scendere all'Albergo Milano, entrò nella trattoria delle Colonne, e si mise a sedere, solo, a un tavolino, rimpetto all'onorevole intransigente di Brescia. E mentre mangiava, l'onorevole Sangiorgio contemplava quel lungo corpo dinoccolato e slogato, quella piccola testa nervosa e piena di un'indomita volontà, quegli scatti convulsi, quell'armeggìo tutto meridionale: l'onorevole di Brescia pranzava con tre altri commensali. In un altro angolo pranzavano tre altri deputati, e i camerieri si affaccendavano intorno a quei due tavolini di avventori conosciuti, dimenticando l'onorevole Sangiorgio, tutto solo, ignoto. E in quell'ambiente fittizio si sentiva rinascere, rinfrancare, riprendeva forza pel combattimento: quando, nella sera che si avanzava, risalì a piazza Montecitorio, nel vedere il palazzo del Parlamento, grande nell'ombra, egli trasalì in tutto il suo essere sconvolto. Era là il suo cuore.
III.
Nella bottega della guantaia, in via di Pietra, vi era ressa: la bella padrona bionda e alta, una milanese allegra, le due commesse, le due giovanettine magre, dagli occhi stanchi, non facevano che rivoltarsi indietro, ogni minuto, con le braccia tese, a prendere un cassetto di guanti dagli scaffali: esse curvavano il capo a scegliere con le dita lunghe e agili, fra le paia, quel paio che cercavano. Tutti quelli che entravano, chiusi nel paletot, sotto cui s'indovinava la marsina, col bavero alzato e il cappello a staio, lucidissimo, chiedevano dei guanti chiari o bianchi; un signore elegante, dalla tuba di raso, dal nastro rosso e bianco sotto il goletto, un commendatore, infine, precisò quello che voleva, li chiese color grigio tortorella. Una signora provinciale, vestita di raso granato, con un cappellino bianco che l'affogava, sceglieva lungamente un paio di guanti, discutendo, facendo impazientire i tre o quattro che aspettavano, in un cantuccio: cercava il guanto stretto, non le piaceva che facesse pieghe; poi blaterò contro la debolezza dei bottoni, attaccati con un punto solo, che saltavano via dopo un minuto. Quando le dissero il prezzo, sei lire, si scandalizzò, assunse un contegno serio, disse che era cattiva la pelle per quel prezzo così caro e uscì, senza guanti, con le labbra strette, portando in mano il suo biglietto d'invito per una tribuna.
Un onorevole, forte, giovane, bruno, dai grossi mustacchi neri, un meridionale, raccontava a un suo cliente che si trascinava dietro, come all'ultimo momento si era trovato senza guanti, che queste padrone di casa mandano tutto alla malora: e il cliente povero ascoltava, col vago sorriso paziente dei confidenti, senza guanti, lui, non avendo forse il denaro da comperarli.
Intanto era entrata una signora, scendendo da una carrozza: era alta, con un bel viso tutto dipinto di carminio, di antimonio e di bianco, le labbra sanguinanti, le sopracciglia azzurre a furia di esser nere, i capelli di un biondo giallissimo. Tutta vestita di bianco, di raso, con un cappello coperto di piume bianche, con un ombrellino di merletto bianco, ella cercava un paio di guanti bianchi, a diciotto bottoni, e i suoi braccialettini tintinnavano, salendo e scendendo sul braccio nudo: ella esalava un acuto profumo di white-rose.
Un deputatino, piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di