La conquista di Roma. Matilde Serao
signora dando il braccio al vecchio magro, i deputati e gli alti funzionari, dietro. L'onorevole Sangiorgio tenne anch'esso dietro, macchinalmente, essendo rimasto solo.
Sulla Piazza Margherita egli vide il governo mettersi in carrozza, in mezzo alla fila degli amici che si era schierata, salutando: la signora chinava il capo dallo sportello, sorridendo: vide tutti andarsene, in carrozza, dopo. Egli era solo, sulla vasta piazza. Per terra un umidore come se avesse piovuto: tutto le finestre dell'Albergo Continentale chiuse. A sinistra, il corso Margherita ancora in costruzione: mucchi di tavoloni di travi e calcinacci. Gli omnibus degli alberghi voltavano per andarsene. Tre o quattro carrozze restavano, per indolenza dei cocchieri, che fumavano, aspettando ancora. A dritta, un carosello deserto, sbarrato e sopra un grande muro grezzo, un'accecante réclame del Popolo Romano. Su tutto questo un'aria bassa e molle, una nebbiuzza penetrante, un lieve sentore cattivo, l'aspetto nauseato e nauseante di una città che appena si sveglia, nella gravezza flaccida delle mattinate d'autunno, con quel fiato di febbre che pare aliti dalle case.
L'onorevole Francesco Sangiorgio era molto pallido, e aveva freddo — nel cuore.
II.
Quel giorno bisognava resistere e non andare a Montecitorio. Non pioveva più, come per stanchezza di quella settimana di pioggia: un fiato molle di acqua fluttuava ancora nell'aria, le strade erano fangose, il cielo tutto bianco di nuvole: una gente smorta, chiusa nei soprabiti, coi calzoni arrovesciati sul collo del piede e col viso incerto di chi non si fida, girava per le vie. Da una finestra dell'Albergo Milano, l'onorevole Sangiorgio guardava il palazzo del Parlamento, dipinto in color legno chiaro, su cui la pioggia autunnale aveva impresso certe larghe macchie più oscure, e cercava di raffermarsi nel suo proponimento di non entrarvi in quel giorno.
Per sei giorni di pioggia, egli era stato lì dentro, la mattina, nel pomeriggio, di sera. Come schiudeva la finestra, al mattino, scorgeva, attraverso il velo fitto della pioggia, il grande palazzone panciuto, che pareva volesse sbuzzar fuori per l'umidità. E si vestiva macchinalmente, tenendovi gli occhi addosso, facendo conto di andarsene per Roma, a vedere la città, a cercare un quartierino mobiliato, non potendo durare alla vita di albergo; ma sulla porta dell'albergo, aprendo il paracqua, una subita indolenza lo vinceva; la strada che inclinava a Piazza Colonna, gli pareva sdrucciolevole e pericolosa: egli dava una scrollata di spalle, ed entrava direttamente, sotto la pioggia che incalzava, nel palazzone di Montecitorio. Ne riusciva solo per far colazione, all'albergo, nel salone a terreno che fa angolo, dietro una delle porte-finestre, dai grandi cristalli di un sol pezzo; e mangiando lo stufatino di vitella alla romana, egli si voltava, ogni tanto, a vedere chi entrasse in Parlamento.
Mangiava rapidamente, con la distrazione di un cervello che non è sensibile al piacere dello stomaco. Sempre qualcuno che entrava lo interessava. Ora gli sembrava che fosse il Sella, con la sua forte persona, un po' quadrata, come se fosse tagliata con l'ascia, e la barba ispida, di un nero opaco, che si brizzolava presto: e Sangiorgio si levava su, come per corrergli dietro, a raggiungerlo. Ora gli sembrava che fosse il Crispi dal grosso mustacchio bianco, dal viso colorito, simile più a un vecchio generale brontolone, che a un focoso avvocato. L'onorevole Sangiorgio finiva presto di mangiare, ròso dalla impazienza di vedere davvicino questi uomini politici, questi capi-parte, e scappava di nuovo a Montecitorio. Ma lì una crescente delusione lo attendeva.
Egli girava dapertutto, cercando il Sella o il Crispi: ma l'aula era vuota e fredda, sotto il lucernario, co' suoi banchi ancora coperti delle fodere di tela estive, coi suoi tappeti di un color polvere, orlati di azzurro, avendo l'aria di un pozzo profondo e umido, con una luce altissima che vi pioveva, quasi filtrando attraverso un velo d'acqua. Distrattamente egli saliva i cinque scalini che portano al seggio presidenziale, e si fermava un momento, dietro il seggiolone, a guardare i banchi, che stretti, giù, ascendevano verso le tribune, allargandosi; gli veniva una voglia infantile di mettersi a baloccarsi coi bottoni bianchi della soneria elettrica: per non cedervi, ridiscendeva subito dall'altra parte e usciva dall'aula, portando seco un po' della malinconia di quel grande cono rovesciato giallastro, così tetro nella solitudine. Non trovava il Sella o il Crispi in nessun posto, nè nel buio corridoio lungo e stretto, dove i deputati hanno i loro cassetti per i progetti di legge e per le relazioni. Egli non trovava il suo uomo politico nè alla buvette, nè al grande salone dei passi perduti, nè alle stanze degli Uffici che dànno sulla piazza: un silenzio, una solitudine, dappertutto, con qualche usciere che gironzava, in uniforme, ma senza medaglia e con l'aria stanca delle persone disoccupate. Or qua, or là, l'onorevole Sangiorgio incontrava il questore della Camera che, era venuto a dare il cambio all'altro questore, un patrizio che si godeva l'ottobre nel fasto della sua villa magnatizia sul Lago Maggiore: e quest'altro, un barone abruzzese, dalla serena aria signorile, dalla fluente barba bionda, dalla compostezza mite, senza severità, del gentiluomo fedele alla consegna, se ne andava invigilando, senza far mostra di nulla. Ogni volta che il barone questore incontrava l'onorevole Sangiorgio, gli faceva un piccolo saluto col capo: e mormorava:
«Onorevole».
E non diceva altro, passando. Da questa cortesia continua e da questa continua riserva, l'onorevole Sangiorgio era come imbarazzato e intimidito: avrebbe preferito o non esser salutato, come un estraneo, o discorrere come un collega. Quella correttezza, amabile ma fredda, lo sconcertava, cosicchè, in capo a una settimana, di questi saluti compiti, senza lo scambio di una parola, l'onorevole Sangiorgio aveva finito per arrossire, lievemente quando incontrava il questore, come se costui lo sorprendesse in fallo. Poi, preso da una sfiducia di trovare chi cercava, egli si rifugiava nella sala di lettura, intorno alla grande tavola ovale, dove erano sparsi i giornali quotidiani. Lì, trovava sempre un paio di deputati: un socialista, di Romagna, dalla barbetta biondacastana e dall'occhio mobilissimo dietro gli occhiali, che scriveva continuamente sopra un tavolinetto, lettere sopra lettere, proclami focosi, forse; un deputato vecchio, col pizzo bianco e la faccia rossa, che dormiva sempre, quietamente, in una poltrona, coi piedi sopra una sedia, le mani in grembo e un giornale spiegato sul petto.
Francesco Sangiorgio, vinto da quella quiete, da quell'aria calda, dalla mollezza della grande poltrona di velluto azzurro cupo, appoggiava la testa a una mano, tenendo sempre sollevato il numero del Diritto o dell'Opinione che stava leggendo. Un sopore gli scendeva su tutti i nervi, come rilassati in quell'ambiente caldo e silenzioso; ma nel sopore, dietro la mano che gli copriva gli occhi, egli ascoltava. Se il deputato socialista voltava il foglio, se il vecchio faceva gemere una molla del suo seggiolone, Sangiorgio trasaliva: il timore di essere sorpreso dormendo, lo scuoteva, come quell'antico deputato che non aveva vergogna di distendere la sua senilità sfiaccolata e inattiva nella sala, dormendo della grossa, con un respiro roco di vecchio catarroso. Allora egli si alzava e in punta di piedi traversava la sala.
Il deputato socialista levava il capo, guardandolo fissamente coi suoi occhi maliziosi di apostolo troppo furbo: forse cercava di indovinare la stoffa di un discepolo, in quel deputato novellino e giovane; ma lo sguardo freddo, la fronte bassa dove i capelli erano piantati duramente, come una spazzola, tutta la fisonomia energica di Francesco Sangiorgio, indicavano un carattere già formato, incapace di subire influenze, su cui non avrebbe avuto presa il misticismo sociale. Sicchè Lamarca, il deputato socialista, riabbassava il capo a scrivere.
L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni, un catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse una opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato, come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.
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