Le Novelle della Pescara. Gabriele D'Annunzio

Le Novelle della Pescara - Gabriele D'Annunzio


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ella non ritirò la lingua a quel contatto, perchè non aveva conscienza di quel che faceva: lo stupidimento non era rotto dal lume dell'Eucaristia. Camilla guardava con gli occhi rossi pieni di terrore e di dolore quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco a poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato. Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le preghiere latine lentamente. Tutti gli altri rimanevano genuflessi, sotto il diffuso albore che fuori dalla neve suscitava il meriggio. L'odore del pane caldo salì col vento e fece fremere le papille del naso ai clerici.

      — Oremus!...

      Agli eccitamenti del medico Orsola richiuse le labbra. La riadagiarono supina; poichè il prete entrava nel sacramento dell'Estrema Unzione. I clerici genuflessi ripetevano sommessamente l'antifona dei sette Salmi penitenziali.

      — Ne reminiscaris.

      Teodora La Jece metteva di tratto in tratto un singulto soffocato, coperta il volto con le palme, a' piedi del letto. Rosa Catena stava ritta, accanto, con un occhio semichiuso da cui le colava di continuo un liquido giallognolo e con l'altro occhio cieco e bianco per un'albùgine; scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi sommessamente dal pavimento si elevavano, su quel mormorio confuso dominava la formula sacra del prete ungente in croce gli occhi, gli orecchi, le narici, la bocca, le mani dell'inferma inerte.

      — ... indulgeat tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen.

      Fu Camilla che scoperse i piedi della sorella: apparvero tra le coperte due piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime caddero, si mescolarono con l'unzione estrema.

      — Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster...

      L'unta del Signore stava ora immobile, respirando, con gli occhi chiusi dinanzi alla luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le cosce, nell'atteggiamento abituale dei tifosi. E il prete, poi ch'ebbe premuto su le labbra di lei per l'ultima volta il crocefisso, fatto il segno della croce alto in mezzo alla stanza con la gran mano, uscì seguito dai clerici. Vagava ancora nella stanza quell'odore svanito d'incenso e di cera che hanno le vesti sacerdotali. Fuori, sotto le finestre, Matteo Puriello martellava le suola, canticchiando.

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      I segni del male declinavano lentamente in favore: succedeva ora il quarto settenario, succedeva ora al sopore stupido la quiete naturale del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le perturbazioni della conscienza si sedavano e le facoltà del senso si facevano meno torbide e la frequenza della respirazione diminuiva. Ma una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell'inferma, facendo sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della pelle e dei tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia, all'estremità della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla si chinava sul letto chiamando: — Orsola! — la sorella tentava d'aprire gli occhi, di volgersi verso la voce. Ma la debolezza la opprimeva; lo stupore torpido le occupava di nuovo il senso.

      Ella aveva fame, aveva fame. Una bramosìa bestiale di cibo le torturava le viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago delle mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame canina nella convalescenza del tifo, quella terribile avidità di nutrimento vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal lungo malore. Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante pei tessuti; nel cervello debolmente irrigato ogni attività ristagnava come in una macchina a cui la forza motrice del liquido difetti. Soltanto, in quella materia disordinatamente ora si producevano certe vibrazioni determinanti certi atti che nella vita anteriore erano abituali; nè di quel lavorìo meccanico aveva la convalescente conscienza. Ella per lo più diceva ad alta voce le letanie; divideva in sillabe parole senza nesso; minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie di un inno a Gesù. Aveva per lo più nell'indice della mano sinistra un moto di indicazione scorrente su l'orlo del lenzuolo, come se ella con quel segno guidasse l'occhio dei discepoli su le righe del libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava, prendeva una solennità quasi minacciosa, pronunciando le ammonizioni delle sette trombe, ricordando confusamente le parole di fra Bartolomeo da Saluzzo ai peccatori, avendo forse negli occhi stupefatti la visione di quelle vecchie stampe impresse dal legno piene di deformi angeli tubanti e di demonii debellati. Ma negli occhi non mai aveva uno sguardo. Le palpebre pesanti coprivano l'iride a metà, quell'iride senza colore spersa nella sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro. Ella stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo, di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita, le occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne traspariva, e da tutta la restante aridezza della pelle lo scheletro traspariva, e intorno a tutto quell'ossame nei punti di pressione sul letto i tessuti aderenti degeneravano. Solo, un'immensa fame animava quella rovina, torturava gl'intestini ove le ulceri tifose si cicatrizzavano lentamente.

      Fuori, era la novena di Natale, la bella festività de' vecchi e de' fanciulli. Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L'odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell'aria dalle cantine aperte. Lentamente alle finestre, alle porte, nelle vie i lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della casa di Farina, sui comignoli della casa di Memma, sul campanile di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari sul paese occupato dall'ombra. Poi, d'un tratto, la notte cominciava a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant'Agostino una mezza luna si affacciava dal bastione tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo.

      Alla stanza di Orsola tutta quell'animazione di vita saliva in un romorìo confuso di alveare che si sveglia.

      Le pastorali delle zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta in porta. Avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne forate. La convalescente udiva, si sollevava sul letto; poichè quella sensazione le ridestava i fantasmi di altre sensazioni trascorse, e gli occhi le si empivano tutti di visione sacra, di presepi raggianti e di bianchi peregrinaggi d'angeli in azzurri immacolati. Ella si metteva a cantare le laudi, tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca aperta mentre la voce negli organi le mancava; si metteva a laudare Gesù con una elevazione ardente e dolce di amore, trasportata dai suoni delle pastorali appressantisi, allucinata dalle imagini sante delle pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei cherubini, tra i vapori della mirra e dell'incenso.

      — Hosanna!

      La voce le mancava. Ella tendeva le braccia. Camilla, da presso, voleva riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco entusiasmo di fede: le tremavano le mani, le labbra. Orsola ricadeva stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando degli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire. Le zampogne passavano; tardi passavano le canzoni del vino urlate dai marinari nella notte tornanti alle barche della Pescara.

       Indice

      L'istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la coscienza. Quando dal forno di Flaiano saliva nell'aria l'odore caldo del pane, Orsola chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere, guardando d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in sospetto.

      La convalescenza era lunga e lenta; ma già un senso mite di sollievo cominciava a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria vivificavano il sangue


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