Alle porte d'Italia. Edmondo De Amicis
esterno, dove rimane ancora un antico pozzo da streghe, era forse il muro maestro d'un annesso considerevole del palazzo. Comunque sia, ciò che resta dà l'immagine d'un edifizio meschino, incomodo, troppo stretto per la sua altezza, un che di mezzo tra il monastero, la carcere e una casa da appigionare non terminata. Ma come! vien fatto di dire entrando: di qui fu governato per cent'anni il Piemonte? qui si ricevettero i legati del Pontefice e gli ambasciatori dell'Impero? Qui si ospitò la sposa di Andronico Paleologo, imperatore d'Oriente? Oh! tristissima delusione!
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Si stette un poco nel cortiletto a guardare in alto, scontenti, con un leggero sentimento di pietà per gli antichi Principi; poi s'andò su per le scale. Anche l'interno del palazzo ha un aspetto uggioso di convento e d'ospedale, che gli vien dall'ammattonato rosso vivo, dai muri bianchi e dai crocifissi neri, appesi in fondo agli anditi nudi; nei quali il sole gettava qua e là dei grandi rettangoli di luce d'oro, reticolati di fili d'ombra dalle grate delle finestre. C'era un silenzio di Trappa. Il sacro ospizio non ha presentemente che tre convertiti; la stagione è così bella! Si sentiva sfogliettare un libro su al terzo piano, e di tratto in tratto, intorno a noi, un fruscìo discreto di sottane monacali invisibili. Dalle alpi veniva diritta in viso un'arietta deliziosa.... Ci affacciammo a uno stanzone a dare un'occhiata alla travatura antica del soffitto, dove rimane quale mensola rozzamente scolpita e imbiancata. Era forse la camera nuziale dove dormirono il sonno più dolcemente stanco della vita le sette spose della casa di Acaja. Chi può provare di no? Ora ci sono due lunghe file di letti da infermeria, con le coperte di cotone a quadretti bianchi e turchini; e ci dormon le monache e le catecumene, quando ce ne sono. Un altro stanzone del primo piano è convertito in cappella, con un altare da chiesuola di campagna. Non rimane il menomo indizio dell'uso al quale potessero servire le altre stanze. Un principe d'Acaja redivivo non ci si raccapezzerebbe più, sicuramente. Un luccichìo che intravedemmo per uno spiraglio, ci fece accorrere con la speranza di ritrovar delle antiche armature: erano le casseruole della cucina. Mi prese la stizza. Era così penoso quel contrasto fra la curiosità stimolata da mille memorie, fra l'avidità impaziente di vedere, di riconoscere, di scoprire, di capire, e la nudità muta, la stupida ignoranza di quei muri freschi e di quelle scale rifatte! Avrei voluto afferrare un raschiatoio e un piccone, e lavorar come un dannato a scrostar pareti, a sfondar tramezzi, a metter tutto in un monte, per ritrovare un segreto, una immagine viva, una parola almeno del passato! Perchè debbono averne visto quelle vecchie pietre nascoste, e furori d'ambizioni disperate, e scoppi di pianto geloso, e tripudi di vincitori, e audacie insensate di paggi, e secreti d'amore e forse di sangue!
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Girammo lentamente di stanza in stanza, vedendo ogni tanto per certi finestrini ad arco acuto degli squarci luminosi di paesaggio lontano: la cosa che è meno mutata attorno al palazzo, credo io. E mi tornava continuamente in capo questa domanda: — Come vivevano? In che maniera avranno ammazzato le loro giornate, qua dentro, nei tempi ordinari? E m'immaginavo, non so bene perchè, delle ore interminabili di noia in mezzo al grande silenzio di Pinerolo, addormentata sotto il sole di luglio, e delle eterne giornate scure d'autunno, in cui il rumor della pioggia nel piccolo cortile doveva empire il palazzo d'una tristezza da far piangere. Le ricreazioni intellettuali dovevano essere scarse in un paese dove non era traccia d'arte, nè di letteratura, e in cui pochi legisti, qualche monaco e qualche notaro formavano tutto il ceto erudito. Il tema più frequente dei discorsi saranno stati gli amori e i pettegolezzi delle Corti vicine, specie di Savoia e dei marchesati, e i matrimoni e le avventure dei nobili vassalli, sparpagliati da Perosa a Torino. Avranno pure ragionato, in famiglia, degli argomenti spesso delicati o stravaganti delle moltissime liti, per le quali si ricorreva ai Principi contro le sentenze dei giudici dei Comuni. Le udienze accordate ai castellani e ai vicari, l'arrivo dei corrieri di Chambéry, la comparsa di un capitano di ventura che veniva a offrire la sua spada o a fissare i patti per la sua compagnia, saranno stati avvenimenti graditi, e oggetto di molte parole. Tutta quella politica minuta e intralciata di piccoli Stati, quelle contese senza fine per una ròcca, per un mulino, o per un palmo di terra, avranno dato luogo naturalmente a infinite conversazioni del pari intricate e sottili, nelle quali si ripetevano forse mille volte le medesime cose. Un gran discorrere l'avranno fatto pure, prima e dopo, delle corse e delle giostre con le quali festeggiavano gli sponsali e le paci, e di quegli strani banchetti in cui servivano i porci dorati, col fuoco nella bocca, e i vitelli tutti d'un pezzo, con un giardino sul dorso. Anche avranno molto pregato, e discorso molto di cavalli e di cani. Eran più giovanili di noi; avranno sfogliato più assiduamente il libro dell'immaginazione. E davano una parte maggiore alla vita fisica. Il palazzo si sarà assopito di buon'ora dopo i ritorni stanchi delle cavalcate festose, le sere che i pinerolesi vedevan passare in un nembo di polvere dorata dal sole, dietro al viso infiammato d'Isabella d'Acaja, un'onda di cavalli, di levrieri e di paggi. Che diversa vita, peraltro, che violente commozioni dovevan provare in tempo di guerra, quando cento vedette esploravan la pianura dall'alto delle torri e dei campanili, e tutta la città si rimescolava ad un cenno e ad un grido! Dalle finestre del loro palazzo, come dalle logge d'un torneo, le principesse vedevano le milizie uscir dalle porte, e allungarsi in colonne pei campi, e coronar le colline di stendardi e di spade. Quando Filippo assediava Savigliano col fiore della nobiltà sabauda, e allorchè il Principe Giacomo stringeva Saluzzo con Manfredo e col Siniscalco del Balzo, e Facino Cane dava il sacco ad Osasco e Ludovico assaliva Pancalieri, esse vedevano i fuochi notturni degli accampamenti, e i bagliori degl'incendi, e i nuvoli bianchi sollevati dal galoppo degli squadroni. Dovevan martellare gagliardamente i cuori! Era ben altro che ricever le notizie dal bollettino del telegrafo. Respiravano l'aria della battaglia, sentivan passare il soffio della morte. Si capisce come crescessero col petto forte quei Principini e quelle future spose di Principi, che assistevano ai ritorni notturni dalle mischie feroci, tra le lance insanguinate e le fiaccole, in mezzo alle imprecazioni dei prigionieri e agli urli dei mutilati.
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Covando questi pensieri, arrivammo al secondo piano. Qui, finalmente, si ritrovò qualche resto notevole: uno stanzone, che si dice fosse la sala dei grandi ricevimenti, nel quale rimangono qua e là sulle pareti alcuni affreschi a chiaroscuro. Il buon gusto di non so chi li aveva non solamente imbiancati, ma coperti di calce, delicatamente; ed è il direttore dei catecumeni che li rimise alla luce del sole. Occupano un terzo circa dei muri. Il rimanente dev'essere stato raschiato senza pietà dalla zampa d'un asino di cui vorrei essere padrone per ventiquattr'ore. Dalla rozzezza infantile del disegno si giudicherebbero questi affreschi più antichi; ma non si può ammettere che siano, almeno in parte, anteriori alla seconda metà del quindicesimo secolo, rappresentando uno di essi Amedeo IX di Savoia, che tiene in mano una cartella, sulla quale è scritto un suo motto diventato celebre. Ora, essendosi estinta la famiglia degli Acaja nel 1418, tocca agli eruditi a dirci se i Duchi di Savoia hanno abitato per qualche tempo, da Amedeo IX in poi, il palazzo dei Principi, e sotto quale Duca quei dipinti sono stati fatti. Son curiosi saggi dell'infanzia dell'arte, e si direbbe dell'artista, quelli vicini all'uscio, particolarmente: un cavaliere testardo che vuol entrare a tutti i costi, ritto sotto a un baldacchino di trionfo, dentro a una porta di città per cui non potrebbe passar che carponi; drappelli di guerrieri, con facce da tiranni delle marionette, piantati sulla cima di certi colli a pan di zucchero, come spilloni confitti a caso in un cuscinetto, accanto a pini o cipressi tascabili, che arieggiano gli spazzolini da lumi a petrolio; e un ballottìo di case da presepio, d'una prospettiva miracolosa, che dan l'idea d'un villaggio colto colla fotografia istantanea nell'atto d'un terremoto che non lascerà pietra su pietra. Altri dipinti rappresentano Conti o Duchi di Savoia, di pessimo umore. Questa sala è convertita ora in dormitorio dei piccoli catecumeni, i quali riposano così placidamente in mezzo alle immagini minacciose dei persecutori dei loro padri. Null'altro rimane d'antico nell'interno del palazzo. Nulla; nemmeno tre piccoli scalini, a cui si possa domandare, come il Musset alle famose marches de marbre rose, di quale delle belle donne che li premettero avesse il piede più piccolo e il passo più leggero. Nulla. Le povere Principesse ginevrine, viennesi, siciliane, savoiarde, francesi, scomparvero senza lasciare un ricordo, un'immagine neanche contestata delle loro sembianze. Ah! se i cronachisti d'allora avessero descritto le donne con quella minuziosità delicata da mercanti di schiave con cui le mostrano in piazza i romanzieri moderni, quanti preziosi ritratti non avremmo