Alle porte d'Italia. Edmondo De Amicis
coi loro alti cappelli conici e con le loro pellegrine d'ermellino, quando si slanciavano a braccia aperte giù per le scale, e schiacciavano rudemente il loro seno bianco contro le maglie polverose dei vincitori di Monasterolo, di Sommariva e di Tegerone! Non avendo altro appiglio, la fantasia s'aiuta col suono dei nomi, il quale dà delle immagini. Non è vero che quel largo nome sonoro di Beatrice di Ferrara, prima sposa di Giacomo, fa vedere dei grandi occhi neri e una grande bocca purpurea, e udire una di quelle voci profonde e calde che rimescolan l'anima? Che arcana cosa son queste simpatie vive per un fantasma del passato a cui abbiamo dato forma noi stessi! Io la vedevo, discorrendo col buon canonico (mi perdoni); inseguivo il lungo strascico della sua veste azzurra che spariva in fondo ai corridoi, e mentre stavo per raggiungerla nel cortile, essa appariva sur una loggia del terzo piano, e quando ero arrivato ansando sulla loggia, la vedevo passare lentamente giù nel giardino. Povera buona Beatrice, uscita dal palazzo dentro la bara, coi fiori ancor freschi delle nozze, morta senza bambini, così giovane, e dimenticata così presto da tutti; Avrà molto sofferto? In che stanza sarà morta? Aveva una amica, almeno, in questa Corte? E Caterina di Vienna, la suocera, l'avrà amata? E come avrà parlato? Il suo dialetto ferrarese? Come doveva esser dolce e triste la sua voce, quando invocava sua madre lontana, stringendosi il crocifisso sul cuore!
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Il mio buon amico Fi, esattore, gastronomo e antiquario, s'ostinava a cercar la cucina, e voleva a tutti i costi che il canonico gliene dicesse qualche cosa. Egli aveva trovato nel Regesto degli Acaja, edito dal bravo conte Saraceno, che la cucina era attigua al parlatorio, camera parlatorii, del Principe: il che dà un'idea della strana maniera in cui doveva essere scompartito il palazzo. E ci divertiva molto, trattenendoci a tutti gli usci, per darci dei ragguagli culinari ricavati dal latino spaventevole dei conti di tesoreria. Nei loro giri per il Piemonte, ch'eran frequenti, i Principi ricevevan regali da abati, da nobili, ed anche da gente del popolo, e da poveri diavoli: cinquanta staia di avena, un moggio di vino, dodici montoni, un bove, quattro porci: non sdegnavano nulla. Tornavano pure a casa con caponibus pinguibus et grossis, e qualche volta con un cesto di tartufi, triffolarum, dei migliori, probabilmente, di quei bianchi, delle terre di Monferrato. Pare che avessero una predilezione per i pesci, perchè tenevano assai ai molti laghi pescosi, che eran loro proprietà esclusiva; e di questi laghi, e dei regali di pesci che ricevevano, in specie dai marchesi di Saluzzo, è fatto cenno frequentemente nel Regesto. Andavano spesso a desinare fuor di casa, con tutta la famiglia, da prelati e da signori; e qualche volta dai frati minori di San Francesco, pagando loro tutto il pranzo, eccettuati i porri e l'insalata, che i frati mettevan di proprio, si crede anche col condimento. Soventissimo pure invitavano al palazzo capitani, nobili, preti, ambasciatori di piccoli stati, cittadini ragguardevoli. Trattavano i loro sudditi, si capisce, molto familiarmente; conoscevano tutti; davano udienza al primo venuto; vivevano con semplicità casalinga, senza misteri. Non pare che facessero grandi spese di lusso. Non si trovan registrate che pochissime spese per lavori di pittura che si facevan fare su pergamene, bibbie e salterii, e nelle stanze dove ricevevano. Erano anche di facile contentatura in fatto di medici: si facevan curare sovente dai veterinari, qualche volta di malattie cutanee poco pulite, e salassare, flebotomare, come dice elegantemente il chierico registratore, da quibusdam barbitonsoribus. Non profondevano quattrini che in giocolieri e menestrelli. Questo era il loro debole. È interminabile la lista dei regali e delle mance date a giullari, a cantastorie, a strimpellatori di chitarra, a tiratori di scherma, ad ammaestratori di cani, ad acrobati che facevano il saltum periculosum, qualche volta in pubblico, ma spesso anche nelle sale del palazzo. Ospitavano essi pure dei Goliardi. Tenevano in casa delle scimmie. Ci ebbero per un tempo un leopardo, col collarino d'argento, e col relativo magistro: oggetto, a quel che pare, di tenerissime cure. Del resto, si trovavano di frequente nelle strettezze, costretti a vendere gli ori e le gioie che avevan ricevuto in dono dai principi. Ricchissimi non potevano essere certamente, a malgrado di tutti i tributi che ricevevano e di tutti i loro diritti su pascoli e su acque, poichè nè la terra nè il popolo, desolati da una ladronaia di soldati che facevan della guerra un brigantaggio, potevano dar loro gran cosa; nè essi medesimi calcavano troppo la mano. — S'ingegnavano, peraltro, diceva l'esattore, con un sorriso d'uomo esperto della materia. Il principe, per esempio, non prestava mica gratis il suo ufficio di giudice supremo: il vincitore della lite gli faceva spontaneamente, per meglio dire, con spontaneità obbligatoria, un regalo in contanti, e, si sottintende, salato. E poi, anche la giustizia criminale era una vera fontana di bezzi. I capi scarichi e i birbaccioni formavano una rendita per la Corte. Chi era preso a passeggiar per Pinarolium, o Pignerolium, o Pineyrolum, senza lume, dopo il suono dell'ultima campana; chi giocava a giochi proibiti, ad taxillos, per esempio; chi portava coltelli non di misura; chi faceva cader la gragnuola sulla città per arte di negromanzia; chi aveva o tentava di habere rem cum quadam filia di età troppo verde, e chi disertava le bandiere, e anche chi ammazzava il prossimo, scampavano facilmente alla prigione, e al boia, vuotando la borsa, se l'avevano, nelle tasche dell'amato sovrano. E in questi casi, naturalmente, chi più n'aveva, peggio stava. Un infelice canonico di San Donato, più danaroso che continente, per aver tentato appunto di habere rem con una parrocchianetta troppo acerba, solamente tentato, era ridotto addirittura sul lastrico; e per contro, un falegname che aveva spacciato un cristiano, se la cavava rifacendo il tetto a spese proprie a una torre del castello di Moncalieri. — Costava caro, come vedete, concludeva l'esattore, abbassando la voce, era un affar serio habere rem.... sotto i principi d'Acaja.
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Eravamo rimasti al secondo piano, mi pare.... Al terzo non c'è da vedere che la stanzina di studio del direttore, il quale, senz'avere una grande biblioteca, possiede senza dubbio molti più libri di quanti n'abbiano mai letto tutti insieme in cento e vent'anni i quattro Principi della casa d'Acaja. Tutt'in giro a quest'ultimo piano pare che ricorresse una loggia, sulla quale forse si drizzava una merlatura simile a quella degli altri muri. Le Principesse, probabilmente, stavano qui la sera a godere l'aria dei monti, con le figliuole; e qui forse trapunsero le prime ciarpe da torneamenti, fantasticando sul proprio avvenire, Margheritina, la piccola greca, figliola d'Isabella, e la bimba Eleonora, e Alasia ricciuta, e Melchide sposa futura dell'Elettor di Baviera. Da questa grande altezza, quasi librate nell'azzurro, vedevan lì sotto, a pochi passi, la bella chiesa di San Francesco, dove riposavano i loro padri e i loro fratelli, e di cui non esiste più traccia; e tutt'intorno, Pinerolo con le sue mura merlate e coi suoi ponti a levatoio, e il viavai delle sentinelle sugli spaldi delle torri, rispecchiate dall'acque immobili dei fossi. E con un solo giro dello sguardo potevano abbracciare quasi intero il Piemonte, centinaia di borghi e di rocche soggette a loro, od amiche, o nemiche, o malfide; che videro ventiquattro guerre durante il regno di quattro Principi; una pianura meravigliosa, nella quale miriadi di miriadi di alberi salgono in lunghissime file verso i santuari biancheggianti come cubi di neve sulla cima dei colli, si serrano, come eserciti, in masse profonde, si schierano in vasti quadrati attorno a campi color di malachite chiarissimo, convergono in processioni sterminate verso le città, serpeggiano a mille a mille lungo i fiumi e i torrenti, precipitano a legioni giù dalle chine, e incrociano le loro fughe in tutte le direzioni ed empiono gli avvallamenti lontani di vaste moltitudine confuse, presentando innumerevoli sfumature e contrasti di verdi fortissimi e dolci, fin dove il colore della vegetazione si cangia in un azzurro poderoso, e poi digrada in un azzurro gentile, tagliato da una linea immensa e diritta come l'orizzonte del mare.
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Discendemmo adagio adagio, come se a furia di ficcare gli occhi per tutti i buchi si fosse dovuto scoprire almeno qualche annosissimo servo incartapecorito, dimenticato dalla morte, dal quale si sarebbe potuto saper qualche cosa. Ciascuno metteva coll'immaginazione i suoi personaggi prediletti della casa d'Acaja negli angoli del palazzo, e negli atteggiamenti che gli parevan più propri a dar vita alla sua larva. Un mio amico, invece, si stillava il cervello per capire dove avessero potuto “alloggiare„ Ludovica del Villars nel dicembre del 1362, mentre c'era già in casa la terza sposa di Giacomo; gravissimo quesito per uno storico e per un direttore di albergo. I ragazzi si seccavano. Uno di essi domandò timidamente: — Ma.... dove sono questi Principi d'Acaja? — La più eccitata era una signorina, la quale pensava con un sentimento vivo di tenerezza che il