Alle porte d'Italia. Edmondo De Amicis
quel portico, col capo basso e le braccia incrociate, nei giorni che cominciava a presentire le sua disgrazia. Filippo era la sua simpatia. — È una brutta cosa, diceva con calore, che nessuno storico di Casa Savoia abbia detto una parola ardita e generosa in sua difesa. — Andiamo! le rispose l'amico dell'“alloggio,„ ha fatto la guerra da bandito. — La signorina scattò: — Chi n'aveva fatto un bandito? — No veramente, non era giusto. Non era soltanto la coscienza del suo diritto di primogenito che gli rendeva intollerabile di veder destinato il retaggio del padre Giacomo al figliuolo della matrigna; era pure, e più forse, il ricordo di essere stato investito a sette anni di tutti i dominii che gli spettavano, de omnibus civitatibus et burgis, e d'aver ricevuto l'omaggio solenne de' suoi futuri vassalli, in logiam sumiarum, vicino alla grande torre rotonda del castro di Pinerolo. Erano quindici anni ch'egli si teneva sicuro di succedere al padre, quando vide entrare in casa la bella Margherita di Beaujeu, e nascere un bambino in cui l'indole ambiziosa e imperiosa della madre gli fece sospettare fin dalle prime un rivale. La signorìa che la bella donna va pigliando ogni dì più sul marito debole e innamorato, lo afferma a grado a grado nel suo sospetto. L'animo suo s'inasprisce. Crescendo la diffidenza, scema il rispetto, e la freddezza del padre risentito fa peggio. Allora egli parla dei suoi diritti, facendo sonare il passo irato nelle sale del palazzo non più suo, e guarda con gli occhi pieni d'odio quella donna astuta e intrigante il cui unico pensiero è la sua rovina. Egli non ne dubita più oramai. A lui sarà gettata l'elemosina di quattro case e di quattro campi perchè pieghi la fronte di vassallo dinanzi al figliuolo dell'amor senile di suo padre. E il solo che lo potrebbe proteggere, Amedeo di Savoia, lo condanna, e vuole che sacrifichi tutte le speranze della sua vita alla concordia della famiglia! Eppure, sì, quando egli è al cospetto del Conte Verde, quel viso di prode lo soggioga, quella parola nobile e ferma lo persuade: due volte, commosso da lui, egli rinunzia generosamente ai propri diritti. Ma quando torna alla casa paterna, quando rivede l'occhio azzurro e freddo di quella madre egoista, e risente la voce di quel bimbo, nato per la sua sventura e per la sua vergogna, e ha sentore del testamento che lo spoglia per sempre dell'aver suo, anche in caso di morte dell'usurpatore, l'ingiustizia allora gli risolleva l'odio nel cuore, l'ira gli risale per le arterie in ondate di fuoco e gli mette la bandiera della rivolta nel pugno. Amedeo è salpato per l'Oriente; il popolo, sciolto dal timore di lui, i vassalli memori del loro antico giuramento, si leveranno in favore del diseredato. Ebbene, se tutto gli fosse andato a seconda, mancandogli così ogni occasione alla violenza e alla vendetta, la storia avrebbe detto di lui: — Aveva ragione. — Ma non un braccio si leva dalle sue terre, non una voce risponde al suo grido fra quella gente cocciuta, in cui la consuetudine dell'ubbidienza brutale è più forte che il sentimento della giustizia. Esasperato dal disinganno, egli s'indraca allora contro i sostenitori senza coscienza, contro i complici paurosi di quella ladra di principati, che coll'amplesso lascivo ha soffocato nell'anima di suo padre il sentimento dei primi affetti e il rispetto delle solenni promesse. Sanguini, urli dunque sotto le spade e in mezzo alle faci incendiarie dei suoi inglesi e dei suoi alemanni prezzolati, quello stupido pecorame di popolo, poichè è sordo alla voce del diritto e della ragione. Da Barge a Chieri, da Costigliole a Torino, egli passa come un uragano, furioso, accecato, delirante, ma non colpevole di tutte le violenze della sua turba feroce e forse straziato dentro e atterrito dell'opera propria. Il suo cuore non è impietrato. Quando Giacomo fugge a Pavia, una speranza, forse un pentimento lo risospinge verso di lui: corre a Pavia, chiede perdono, riconduce il padre alla sua città, lo circonda di affetto e di cure. Ma il padre muore senza esaudirlo. Una nuova speranza gli brilla al ritorno d'Amedeo da Costantinopoli. Ma il Conte di Savoia proclama solennemente la successione del fanciullo e la reggenza della matrigna. Tutto è finito, dunque. Abbandonato dai Principi a cui ricorre, respinto dai suoi popoli, malsicuro dei suoi mercenari, a che pro raccoglierebbe il guanto di sfida che gli getta l'implacabile Amedeo, chiamandolo traditore e bugiardo, perchè giochi la vita con lui davanti alla Corte dell'Imperatore? Non è il solo pensiero della vanità della prova, forse, quello che gli trattiene la spada: è un resto della riverenza antica per il capo della sua stirpe, è un senso nuovo di ammirazione per l'eroe dell'Oriente, salutato dal plauso del mondo. La lotta non è più possibile. Stretto in Fossano, viene a patti. Con un salvacondotto del vincitore cavalleresco, si reca a Rivoli senza timore. Un Consiglio di giurisperiti deciderà fra lui e Margherita. Forse tutto non è perduto. Ma che! A Rivoli, dinanzi al Conte di Savoia, egli si trova in faccia alla matrigna odiata, che lo accusa delle devastazioni e del sangue. Invano egli invoca il salvacondotto. Mentre il Consiglio delibera sulla successione, un altro Consiglio gli forma processo criminale. Egli non può sbugiardare le accuse, deve pur confessare che s'è ribellato, che ha incendiato, che ha fatto sangue.... Allora, nello sguardo del Conte di Savoia, nell'accento dei Commissari, nell'atteggiamento de' suoi custodi, indovina forse una sentenza tremenda; un misto di rimorso e di pietà di sè stesso gli opprime l'anima, si sente venir meno il coraggio, invoca la misericordia del suo signore.... Che cosa avvenne di quel disgraziato? Il giorno 13 ottobre del 1368 fu ancora interrogato una volta dai suoi giudici nelle prigioni di Avigliana. Poi non se ne seppe più nulla. Fu ucciso? Ma non c'è indizio d'una condanna di morte che sia stata pronunciata contro di lui. Si uccise? Ma perchè non si seppe? Delle due supposizioni, è più ragionevole la prima pur troppo. Ah! ma è doloroso.... ripugna il mettere una macchia vermiglia sulla gloriosa assisa verde d'Amedeo!
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Queste cose, o presso a poco, doveva dire tra sè la signorina, mentre scendevamo nel giardino, poichè i suoi begli occhi verdi luccicavano come due smeraldi inumiditi e le sue narici sottili vibravano come due alette rosate di farfalla. Il giardino lungo e stretto, chiuso tra quattro muri, è un giardinuccio malinconico di chiostro, fatto piuttosto per dirvi degli atti di contrizione, che per commettervi dei peccati. È incredibile che quello fosse tutto il giardino della Corte: doveva risalire o discendere il colle a scaglioni e a gradinate, e stendersi molto più in là verso le mura. Non di meno, visto di lì sotto, il palazzo antico degli Acaja, così alto, nell'ampio azzurro, coi suoi merli, con le sue finestre arcate, con le sue logge aperte, con la sua torre rotonda e leggera, doveva offrire un aspetto gradevole, o, se non altro, curioso. Ed anche nel giardino ci tenne dietro Filippo, il protagonista della giornata. Non ci fu rimedio. La poetica signorina si commoveva da capo, pensando ai suoi amori di fanciullo. Ah! un idillio gentile davvero che raccomando al mio buon Marenco, per la piccola Cuniberti. Quale argomento più grazioso che le avventure di due sposi di sett'anni? Filippo forse non li aveva ancora quando suo padre Giacomo, collo scopo d'amicarsi il Conte di Ginevra, il quale, come tutore d'Amedeo VI, poteva giovargli presso la Corte di Savoia, concertò il matrimonio del principino con Maria, figliuola del Conte, nata da Matilde di Bologna. Sciolto il ragazzo, col consenso del papa, dai vincoli dell'autorità paterna e proclamato erede dei dominii di Giacomo, si stipulò il matrimonio in forma solenne, al cospetto di molti personaggi ecclesiastici e secolari, fissandosi una dote di quindicimila fiorini d'oro; alla quale parve che il fidanzato si mostrasse affatto indifferente. Le promesse vennero fatte nel 1346. L'anno seguente scese in Italia la sposa. Filippo aveva compito il settennio; la sposa poteva avere otto o dieci anni. Essa portava con sè uno scrigno pieno di gioielli, che suo padre affidò all'abate di San Michele della Chiusa, perchè lo rimettesse agli sposi quando il matrimonio fosse consumato, o lo restituisse alla famiglia quando il matrimonio andasse a monte. Gli sposini non essendo ancora in età di consumar altro che dei confetti, furono celebrati intanto gli sponsali; e la bimba rimase alla Corte degli Acaja ad aspettare gli anni dell'amore. Come avranno passato quel tempo i due ragazzi? Senza molta impazienza, si può credere. E nessuno gli avrà vigilati, di certo. Si saranno rincorsi mille volte per i viali di questo giardino. Essa avrà parlato del cofanetto miracoloso dell'Abate, egli dei bei puledri che avrebbero fatto caracollare insieme per le vie di Pinerolo, tra pochi anni. Sibilla del Balzo, che era ancor giovane, avrà fatto da mamma alla piccola nuora. Qualche bacio innocente nel collo alla sua ginevrina, Filippo ce l'avrà stampato, qualche volta, in mezzo ai roseti. Si saranno posti affetto l'un l'altro? Si saran bisticciati? Quanti lieti pronostici avran fatto i vassalli striscianti e le dame adulatrici! Ah poveri pronostici d'amore! Amedeo VI cresceva; nel 1347 usciva di pupillo. A che poteva giovare il Conte di Ginevra, scadendo dal suo ufficio di tutore? E allora, perchè il matrimonio? Con un tratto di penna, tutto fu sciolto. La povera sposina fu liberata dalle promesse. Le fecero un involtino delle sue bricciche, le rimisero in mano la scatoletta dei suoi gingilli, e la rimandarono al babbo e alla