Gli albori della vita Italiana. Autori vari

Gli albori della vita Italiana - Autori vari


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gl'interessi della vita veneziana, maturata al caldo sole d'Oriente. Ma non era più che un'azione di nome. Che poteva aver di comune, quale autorità esercitare un Impero, nato nella mollezza, fra le ambizioni delle donne e le basse adulazioni dei cortigiani, fra le lusinghe e le menzogne, e volgente alla fine, svigorito dalla decrepitezza, con un popolo fiorente di gioventù, ricco di giovanile baldanza? La vigorìa e la gioventù non furono contaminate dalla vecchiezza e dal vizio.

      Venezia passa dall'adolescenza alla giovinezza robusta. Gli stessi scompigli dei primi tempi fanno prova di eccesso di vigoria, della necessità di azione; di quella inquietudine che cerca trar fuori l'ordine dalla confusione delle cose. Agnello Partecipazio (811), primo doge in Rialto, assoda lo Stato, abbellisce la nuova sede, unisce con ponti i sessanta o settanta dossi che formano la nuova città, bonifica i terreni paludosi, crea un magistrato per assicurare i lidi dall'impeto delle acque. Anche qui il primo pensiero è rivolto a Dio, anche qui intorno alle chiese, quasi a cercare la solenne protezione del cielo, si fabbricano le case. E le chiese non sono già, come nei primi tempi di tavola e di canne, fabricæ lignæ, ma si costruiscono di pietra e si abbelliscono di marmi e colonne. Giustiniano, figlio di Agnello Partecipazio e collega nel dogato al padre, fra l'813 e l'820, fondava per incarico dell'imperatore bizantino Leone, un monastero di donne dedicato a san Zaccaria. L'imperatore mandò da Costantinopoli alcuni architetti, perchè l'opera fosse condotta a termine il più presto possibile. E, circa nello stesso tempo, il doge Agnello gettava le fondamenta di quel palazzo, che dovea servir di dimora ai reggitori del più gagliardo Stato d'Europa. Ma per mostrare come legami di sudditanza non esistessero più col decrepito impero di Costantinopoli, la nuova libertà è posta non più sotto il protettorato dell'antico patrono greco Teodoro, ma di un Santo, congiunto ai sentimenti e alle aspirazioni nazionali. Narrava una leggenda che l'evangelista Marco nel suo viaggio da Alessandria ad Aquilea, colto da una bufera, era stato gettato sulle isole realtine, ove un angelo gli era apparso salutandolo: Pax tibi, Marce, Evangelista meus. E in suo fatidico accento, il messo di Dio gli annunziava che là fra quelle isole, chiamate un giorno a meravigliosa prosperità, avrebbero trovato pace le sue ossa.

      La leggenda servì mirabilmente a quella specie di misticismo ufficiale, che, come ben fu detto, nessuno Stato ebbe in grado maggiore di Venezia. Tutto ciò che si riferisce all'innalzamento del tempio, dove, secondo l'angelica previsione, dovea trovar riposo il corpo dell'Evangelista, è come avvolto da un'aura di misteriosa poesia. Strano il modo con cui da Alessandria furono trasportati nelle isole realtine i resti di san Marco. Due mercanti, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, nell'828 approdavano ad Alessandria, dove i cristiani erano perseguitati dai musulmani, che spogliavano di quanto contenevano di più prezioso le chiese, per adornarne moschee. Anche il tempio dove era la tomba di san Marco dovea essere distrutto. I due mercanti veneziani poterono ottenere dai sacerdoti greci quelle sacre reliquie, e per sottrarle alle indagini dei gabellieri musulmani, le coprirono di carni porcine, avute in orrore dagli islamiti. Recata quindi la salma sulla nave, spiegarono al vento le vele, approdarono alla patria, fra le festose accoglienze del doge e del popolo. La santa reliquia fu riposta in palazzo ducale fin che si fondasse il tempio, in omaggio del nuovo protettore.

      Sotto Giovanni Partecipazio, nella chiesa, ridotta a buon termine e adornata di colonne e marmi finissimi, spoglie di vittorie sui Saraceni, si trasportò il corpo dell'Evangelista, il cui nome fu invocato nelle sventure, nelle gioie, nelle battaglie, nelle vittorie. E Venezia, che diverrà una delle prime potenze denaresche d'Europa, quasi a bene augurare de' suoi commerci, stamperà il busto nimbato di san Marco sulle sue monete; e l'animale simbolico dell'Evangelista diverrà ben presto il segnacolo glorioso della repubblica, e nell'edifizio, sacro e inviolato sepolcro del Santo, si svolgerà una serie di avvenimenti, nei quali si riassume quanto v'ha di più glorioso nella veneta storia.

      Se Venezia potea dirsi indipendente dall'Impero bizantino, non avea, d'altra parte, più a temere le forti razze del settentrione. Colla potenza Carolingia, minacciosa un dì per la libertà veneziana, la giovane repubblica potea ora trattare da eguale ad eguale. Lodovico II, nell'855, si reca insieme con l'imperatrice, insino a Brondolo, presso Venezia, per onorar di una visita il doge Pietro Tradonico, del quale tiene al fonte battesimale un nipote.

      Ma, fra tanta prosperità, le interne discordie non quetavano, anzi, tratto tratto, prorompevano tremende, specie fra i maggiorenti. Le famiglie più illustri vengono fra loro al sangue: i Giustiniani, i Basegi, i Polani da una parte; gli Istoili, i Barbolani, i Selvo dall'altra. Lo stesso doge Pietro Tradonico è trucidato, non già in tumulto di popolo, ma per mano di congiurati, i cui nomi sono fra i più illustri di Venezia: Gradenigo, Candiano, Calabrisino, Faliero.

      Nè men sinistra quella luce di rivolte civili, che circonda la bieca figura di Pietro Candiano IV, prima esigliato per l'indole fiera e turbolenta, poi con voltabile giudizio, richiamato in patria ed eletto al dogato. Ma presto, lasciato veder l'animo suo, prorompente ad ogni maniera di prepotenza, fu fatto nuovamente segno alle ire di congiurati, che lo assalirono nel palazzo dove trovaron fiera resistenza nelle soldatesche straniere, messe a guardia del doge. Allora appiccarono il fuoco alle case vicine. Quando le fiamme minacciavano al palazzo ducale, Candiano fuggì per l'atrio della chiesa di San Marco, insieme col figlioletto ancora lattante. I congiurati lo scoprirono, s'avventarono su lui, implorante la vita, almeno, pel figlio. Risposero col sangue. I corpi degli uccisi, lasciati per ludibrio insepolti, furono raccolti e seppelliti da un Giovanni Gradenigo, uomo pio, aborrente da quei furori.

      Altre contese sanguinose sorgono fra le due famiglie dei Morosini e dei Caloprini. Un Morosini, mentre esce di chiesa, è trafitto da un Caloprino. I servi, percossi d'orrore, non pensano a brandire le armi, ma raccolgono il ferito e lo trasportano in un monastero, dove spira fra le lagrime e i propositi di vendetta dei parenti colà riparati. I Caloprini fuggono, chiedono asilo alla corte di Ottone II, che coglie tale pretesto per assediare Venezia da ogni parte, perchè non le giungessero vettovaglie e dovesse arrendersi. Venezia resiste e nel 983 si viene alla pace di Verona.

      Più tardi, i Caloprini per intercessione dell'imperatrice Adelaide, ottengono il perdono e il ritorno in patria. Ma gli odî non sono spenti nei Morosini. Una sera, seduti in una barca, tornavano dal palazzo ducale alle loro case, tre giovani Caloprini, allorchè, d'improvviso, assaliti dai Morosini son trucidati con tal furore da farne schizzare il sangue sulle rive vicine. I corpi sanguinosi dei trafitti furono portati da un servitore fedele alla povera madre e alle vedove mogli.

      Strano tempo e strane antitesi! L'odio a canto all'amore, la ferocia alla mitezza; e sconsigliati impeti di plebe a canto a sottili e accorti provvedimenti; e qui levarsi su nel limpido azzurro le bianche chiese e là intorbidar l'aria il fumo degli incendi vendicatori; e dotar monasteri dopo esser corsi alla rapina; e appendere a piè degli altari le spoglie dei nemici; e innalzar preci dopo uccisioni e stragi. Ma sol che lo straniero minacciasse ed offendesse la patria, le discordie tacevano e tutti insieme i cittadini correvano alle armi, animati da un volere comune.

      È di questo tempo il celebre ratto delle spose veneziane, che ispirò la poesia e le arti. È leggenda, è storia? I più vecchi cronachisti, l'Altinate e il diacono Giovanni, vissuto tra il cadere del secolo X, Martino da Canale, che narrò nel XIII, non ne parlano. Certo, a quell'avvenimento vero e leggendario si dee l'origine d'una delle più pittoresche feste veneziane. Non la storia soltanto, anche la fantasia ha i suoi diritti: e l'indagine fredda non ha potuto cancellare dalle pagine della storia questa tradizione di coraggio e di valore. Era costume veneto, l'adunarsi delle fidanzate nella chiesa di Olivolo, il dì secondo di febbraio, perchè dal vescovo fossero le loro nozze benedette. Biancovestite, coi capelli disciolti, ornate di molti gioielli, tenevano in mano una cassetta (arcella), contenente la dote. I pirati slavi approdarono di soppiatto in Olivolo, irruppero nella cattedrale, rapirono le donne, gli uomini e, secondo alcuni, anche il vescovo e i preti, e si diressero verso Caorle, a un porto, chiamato ancora delle donzelle, per dividersi le fanciulle e la preda. Ma i Veneziani, rimessi dal primo sbigottimento, armarono in fretta alcune barche e guidati dal doge, raggiunsero a Caorle i corsari, li assalirono, li sconfissero e ritolsero loro le spose e il bottino. In memoria di questo avvenimento fu instituita la festa così detta delle Marie. Singolarissima e fastosa. La descrivono, tra altri, un documento del 1142 e la Cronaca di Martino da Canale. Quei documenti parlano di ricche compagnie di damigelle portanti vassoi e fiale d'argento, e precedute da trombettieri,


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