Gli albori della vita Italiana. Autori vari

Gli albori della vita Italiana - Autori vari


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da alberi. Si attraversavano i ponti di legno di brevissimo arco, senza gradini, si seguivano strade lungo i canali, chiamate fondamenta o junctoria, si entrava in certe piazzette anguste (campielli), per certi chiassuoli stretti (calli) e si riesciva all'aperto dinanzi a qualche largo specchio d'acqua (piscina), a seni, a sbocchi, oppure fra verdi prati (herbidi piani), dove pascevano armenti, o in mezzo a folti boschetti. La piazza di San Marco si chiamava brolio, ossia orto, perchè ricoperta d'erba e piantata d'alberi. Apparivano qua e là saline in muratura, e incassati tra argini e canali stendevano i raggi delle loro ruote i molini, chiamati acquimoli. Si camminava sul nudo terreno: i cavalli correvano per la città, e i porci dei monaci di sant'Antonio grufolavano continuamente per le vie — sub specie et reverentia Sancti Antonii vadunt per civitatem — diceva un decreto del Maggior Consiglio. Le case erano, nei primi tempi, coperte di tavolette di legno o di paglia e alcune non aveano altra via che d'acqua. Ogni magnificenza era riservata ai pii edifici e alla dimora del capo dello Stato. E fra le case e sopra i tetti, nettamente intagliate nel pieno azzurro, vele, antenne, cordami. Poi prospetti lontani di altre case e di altre vele, e sullo specchio tranquillo della laguna le svelte navi — le zalandrie, i dromoni, le galee — il cui solo nome, il solo ricordo, ci svegliano nella mente la visione della gloriosa epopea marinaresca delle città italiane. Squadre intere di navigli, che toccavano i porti dell'Asia e dell'Africa e scorrevano i mari del Nord; naviganti che, con la sicurezza della forza e il presentimento della gloria, spingeano la prora così fra le acque su cui si riflette il sole d'oriente, come fra le sconfinate solitudini brumose del settentrione; marinai che passavano a traverso mari inesplorati e toccavano terre ignote, fra gli ostacoli della natura e i più perversi ostacoli degli uomini, fra grida alzantisi nello spazio a osannare al trionfo e urla imprecanti inutilmente alla morte — intrepide avanguardie del progresso umano, della civiltà moderna, della gloria italiana.

      Una sola città avrebbe potuto rivaleggiar con Venezia e metterne in dubbio il primato: Amalfi. Alla città surta là dove il monte cala, lieto di verzura e fiorente di messi, al mare, accorrevano d'ogni fatta stranieri. La descrizione di Amalfi fatta da uno scrittore, a cui la poesia non fa velo alla verità del giudizio, Guglielmo Apulo, non ha nulla da invidiare alle condizioni di Venezia nei tempi più prosperi. Straricca di tesori e frequente di popolo: le case piene d'argento, di stoffe d'oro, di tessuti di seta. I suoi marinai, noti in tutto il mondo, san farsi strada sulle onde, in mezzo ai venti e alle tempeste. Le merci che escono da Alessandria d'Egitto e dalla città d'Antioco sull'Oronte, affluiscono tutte alla spiaggia d'Amalfi. Non v'ha porto in Arabia, nella Libia, in Africa, o nei paesi della Sicilia, che non sia stato visitato dall'Amalfitano. Ma fu luce rapidissima, come fu passeggero lo splendore di Napoli, Gaeta, Sorrento, signore dei mari, ben prima che dalle ruine dell'antica grandezza greco-romana risorgessero le repubbliche di Pisa, di Genova e di Venezia. In sui primordi del secolo XII, la libertà e la prosperità amalfitana furono spente dalla violenza di quegli eroici avventurieri normanni, a cui nulla omai più resisteva in Italia, nulla, tranne Venezia, la quale con la giovanile energia delle sue forze, dopo una fierissima guerra, durata tre anni con varia fortuna e finita nell'agosto del 1085 colla presa di Durazzo, salvò dai Normanni il decrepito Impero bizantino, ottenendone in compenso privilegi importantissimi, nuovi possedimenti, libertà assoluta di traffico e perfino un quartiere distinto in Costantinopoli stessa.

      Qui Venezia si trova di fronte ad altre due città marittime, che andavano anch'esse crescendo in potenza, e alle quali la fortuna della rivale non poteva non destare sospetti e antagonismi, scoppiati poi in sanguinose discordie.

      Pisa non era una nuova venuta. I documenti della sua nobiltà risalivano all'antica civiltà etrusca, alla grandezza romana. Risorta dopo l'invasione barbarica, ebbe a combattere i Saraceni. Ma il valore delle armi non si scompagna agli accorti maneggi del commercio e ai provvidi ordinamenti civili. Il dominio della contessa Matilde fu più di nome che di fatto e non impedì il libero svolgimento della libertà, fecondatrice di ricchezza e benessere materiale. E quanta fosse la sua floridezza commerciale, provano le parole del monaco Donizone, il quale, nel suo ascetico fanatismo, vede i navigatori pisani trasformati in mostri marini e la città insozzata da male generazioni di Pagani, Turchi, Libici, Parti, e le sue spiaggie corse dai Caldei.

      Dopo aver combattuto contro la vicina Lucca, Pisa combattè pel possesso della Sardegna contro Genova.

      Difficili i primi passi di Genova, umili le origini: trafficare coi porti vicini, combattere i predatori saraceni e normanni. A poco a poco, a nuovi commerci nuovi lidi. Fin dal 958, essa gode della sua libertà, non funestata mai da capricci superbi di conti, di marchesi, di duchi, ai quali tutti il trattato di Berengario II e di Adalberto vietano di porre piede nella città. Prosperano le compagnie cittadine belligere e trafficanti. Da prima, insieme coi Pisani, Genova strappa ai Mori la Sardegna, ma ben presto le armi consociate diventano fratricide, e la guerra fra le due città dura sessant'anni.

      Ad accrescere la ricchezza e le rivalità delle città marinare d'Italia giungono le crociate.

      È opinione comune che tra le prodezze irreflessive, ma generose delle crociate, Pisa, Genova e, in ispecie, Venezia, non abbiano cercato che l'interesse ed abbiano fatto servire una grande idealità religiosa ad ottener dovizie materiali, ad aprir nuovi scali al commercio. Certo, fra quei tre popoli non apparve l'ascetismo feroce, nè il principio di autorità dogmatica, soccorritore del feudale e del dinastico, ma la religione fu sentita e intesa fra quelle genti, nè fu ipocrito pretesto di mercantili speculazioni. Vi sono popoli credenti e pratici a un tempo, come l'inglese e il veneziano. Sono sinceri in tutti e due gli atteggiamenti della loro esistenza, e perchè sinceri colgono i frutti di ambedue queste attitudini dello spirito. Il missionario inglese, quando con la Bibbia, tradotta in tutti gli idiomi asiani e africani, s'avanza in regioni ignote a spargere la santa semente del verbo di Dio, è profondamente sincero e devoto al suo ideale fino a rifiutare per esso la vita. Ma, superate le difficoltà, egli è egualmente convinto di servire alla sua patria mutando l'evangelista in negoziante, segnando la via ai cotonieri del Lancashire e qualche volta, e Dio gli perdonerà, ai fabbricatori di brandy del suo paese. Così Venezia: devota a Cristo, si sentiva bensì accesa di zelo religioso per la liberazione del Santo Sepolcro, e, all'infuori di ogni pensiero mondano, palpitava nella isoletta di Rialto, come il grande signore di Francia e di Lamagna nel suo maniero. Ma a canto all'imagine di Gesù crocifisso, i signori dei mari intuivano tutti i nuovi orizzonti di traffichi e di colonie e vi si fisavano con amoroso zelo. E in quel connubio di palpiti cristiani e di mercantili disegni, si accordavano la religione con l'industria, l'ascetico col mercadante, e l'imagine di Gesù liberato si adornava di tutte le opulenze della nuova vita economica. Così erano, o signori, anche i vostri antenati. Credenti, mercadanti e diplomatici a un tempo, mistici e positivisti, i lucri guadagnati negli arditi commerci consegnavano alla divinità e dai banchi uscivano gli artefici, che erigevano i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli, nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei nostri parlamenti.

      Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.

      Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città. Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e nello stesso


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