Gli albori della vita Italiana. Autori vari

Gli albori della vita Italiana - Autori vari


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uomini pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichità alla romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accennerò, o signori, alle umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare d'Italia se non per ciò che con Venezia ha rapporto.

       Quella regione, da una parte racchiusa dall'Adige e dal Timavo, dall'altra lambita dalla curva settentrionale del golfo Adriatico e difesa dalle Alpi tirolesi e carintie, era conosciuta dai Romani col nome di Veneto. Le origini degli abitanti si collegavano ad Ilio, secondo una tradizione non del tutto creata dalla boria nazionale, ma ravvalorata dai versi dell'Eneide (I, 246). Eneti viene dal greco e vuol dire laudabiles, ma ai veneti cronachisti la nobiltà del cuore non basta e trovano che la voce enetici viene da Enea.

      La regione era lieta di città popolose e fiorenti: Padova, Aquilea, Altino, Verona; di paesi ferventi di vita: Ateste, Monselice, Concordia, Treviso, Vicenza, Oderzo, Belluno, Ceneda, Acelo (Asolo). Collocati alle porte orientali d'Italia, caddero primi, nel V secolo, sotto l'impeto delle turbe barbariche, che diruparono dalle Alpi. Gli abitanti, dinanzi a quelle disperate catastrofi, cercarono rifugio là dove le acque dei fiumi dell'Italia superiore, giungendo al mare si fermano, stagnano, si dilatano in lagune. Nulla però in esse d'insalubre. Il Lido, stretta lingua di terra, che separa dal mare la laguna, è rotto in varie aperture, in vari porti, che lasciano libero il corso delle acque. Il flusso marino, che ora copre or lascia a secco quei fondi melmosi, porta via ogni germe mefitico. Nulla di triste. Il cielo, che non splende del troppo vivo fulgore meridionale e non ha la fredda vaporosità del settentrione, si rispecchia nelle acque con quei magici riflessi, con quella smorzatura di toni, con quelle armonie di tinte, che educarono l'occhio dei pittori veneziani. Erano isole, se non deliziose e frequenti, come alcuni sognarono, non abbandonate e squallide, come credettero altri, e abitate e conosciute dai naviganti del tempo romano. Si può arguir ciò da alcuni passi che a quelle isole si riferiscono in Mela, in Tacito, in Plinio, nell'Itinerario di Antonino, in Erodiano. I due limiti estremi della regione insulare, non esposta all'ira degli invasori, cui mancava il navilio, erano, da una parte Grado, dall'altra, Capo d'Argine.

      Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perchè uno degli aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si riferisce ad Altino, città prospera per commercio, magnifica per edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenità delle ville, degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale:

       Æmula Bajanis Altini litora villis.

      I primi cronachisti veneti illuminano di luce poetica e religiosa le antiche dimore dei loro padri. Tutti i grandi popoli, dalla Grecia e da Roma a Venezia, hanno carezzata la loro origine leggendaria, e più da essa si sono allontanati, grandeggiando, più si compiacquero non a collegarsi con umili e rozze origini storiche, sinceramente esplorate, ma con quel vago e indefinito della leggenda, che ritrova anche nei primi albori della vita la grandezza. Così le città greche rannodarono le antiche origini con gl'Iddii. Narra la cronaca d'Altino come agli Altinati e agli Aquileiesi Iddio abbia manifestata l'imminente venuta degli Unni. Ciò avveniva nel 452, e si sa come siano intimamente collegate l'origine di Venezia e la leggenda di Attila, intorno alla quale si raccolse ogni ricordanza di distruzione, di sangue, di stragi. Gli uccelli nidificanti nelle mura e sulle torri di Altino fuggirono portando nei becchi i loro nati. Non sapendo una parte di cittadini dove trovare uno scampo, dopo un digiuno di tre giorni pregarono Iddio di manifestar loro se dovessero affidarsi alla terra o alle navi. Si udì una voce: Ascendete sulla torre e guardate verso la parte australe. Molti montarono sulla torre e videro in vicinanza alcune isole, e per tali figure s'intese che doveasi andar là ad abitare. Un terzo circa di cittadini, preceduti dai tribuni e dal clero, si diresse con barche alle lagune e fondò la celebre Torcello. Due sacerdoti, Geminiano e Mauro, incuoravano i fuggitivi e gli spiriti atterriti si commovevano, si sublimavano nelle visioni dell'infinito. Appariva allora a Mauro una bianca nube, dalla quale, insieme con due raggi di sole, scendea la voce di Dio, che imponeva di innalzare in quel luogo una chiesa. Alla voce di Maria, che dava, in altro sito, lo stesso comando, seguiva un prodigioso miraggio: le bianche nubi si squarciarono e lasciarono vedere lidi fiorenti, pieni di popolo e di gregge.

      Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.

      Una cronaca, di poco posteriore all'Altinate, quella di Grado, narra che il patriarca Paolo, ritornando coi profughi all'antica patria, Aquileia, ebbe una visione, dalla quale apprese come la sævissima longobardorum rabies avesse distrutto quella città. Egli allora si ritirò a Grado, divenuta poi la più ricca fra le isole veneziane e la sede principale della potestà ecclesiastica.

      Eraclea, popolata essa pure da Aquileiesi e dal fiore degli Opitergini, fu sede del governo.

      I profughi di Asolo e di Feltre ripararono a Jesolo, più tardi chiamata Equilio, per le razze dei cavalli, che vi si allevavano.

      Gli scampati dalla distruzione di Padova si ridussero a Matemauco, l'odierno Malamocco.

      Il popolo di Concordia cercò riparo nell'isola, dalle capre che vi condussero i pastori, chiamata Oaprule ed oggi Caorle.

      Vissero tutte la fulgida vita della giocondità e della ricchezza. Ora, dove esse sorgevano, si è fatto un triste deserto. Qua e là qualche rudero; eco romita dei vecchi secoli. Vi regnano lo squallore e la malaria.

      Esiste ancora in tutta la suprema bellezza dell'arte e delle memorie, Rivoalto, la più modesta di tutte le isole, che a poco a poco unita ad Olivolo, indi a Luprio e finalmente alle Gemine e a Dorsoduro, formò l'odierna Venezia.

      L'operosità rinvigorita della sventura e la forza raddoppiata dagli ostacoli animano quella moltitudine di persone, varie di condizioni, di costumi, di sesso, di età, e cento anni circa dopo la distruzione di Attila, i nuovi abitatori delle isole sono descritti con vivi colori da Cassiodoro, in una lettera magniloquente ai tribuni marittimi delle lagune, probabilmente ufficiali inferiori goti, ai quali il ministro, a nome regio, ordina di preparare le navi per trasportare dall'Istria a Ravenna il vino e l'olio.

      Provveduti di navilio, arditi sfidano le tempeste del mare e le correnti dei fiumi: erigono case, come nidi d'uccelli marini; collegano la terra con fascine e dighe: ammucchiano sabbia per rompere le onde infuriate: convivono in eguaglianza poveri e ricchi; non invidia, non vizî li macchiano; ogni loro emulazione sta nel lavoro delle saline, da cui nasce il frutto al quale ogni produzione è soggetta e che dell'oro è assai più prezioso.

      Nessuna descrizione più attraente, quantunque il ministro di Teodorico fosse disposto ad abbellire il quadro, oltre che dall'indole sua, anche dal bisogno che aveva il suo sovrano di trasportar vettovaglie coi navigli di quei Veneti, i quali del resto riconoscevano nei conquistatori goti l'alto dominio sulle isole.

      Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo squallore dei bassi tempi alla luce di un'êra novella, si rianima. Noi la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare negli esuli il rimpianto e le memorie delle città disparite, gli splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; là, il furiar delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e in esso cercarono la gloria. — Lotta e gloria — ecco il grido anche dei secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura delle difficoltà e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa passione li agita, li comanda, li possiede.

      Alla vita frugale e laboriosa seguono più prospere condizioni. S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni più breve isoletta è abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni e di


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