Guida pei monti della Brianza e per le terre circonvicine. Ignazio Cantù

Guida pei monti della Brianza e per le terre circonvicine - Ignazio Cantù


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miserie, alle più indegne umiliazioni, finalmente molti fatti prigionieri (1261).

      Egual sorte toccavano gli altri che si erano gettati nel castello di Brivio, poi e questi e quelli salvi finchè visse Martino Torriano, (1262) dopo la sua morte furono in numero di 54 miseramente appiccati nel Broletto nuovo di Milano. Ma la fortuna, fino allora favorevole alla potenza torriana, si innimicò a loro sui campi di Desio, 20 gennajo 1277, quando Francesco ed Andreotto, figliuoli di Martino, rimasero trafitti, e i fratelli di costoro Napo, Lombardo ed Erecco perdettero la libertà e finirono la vita nelle miserie delle prigioni, e gli altri due Cassone e Goffredo postisi in fuga mangiarono il duro pane dell'esiglio.

      Allora ristorata la potenza de' Visconti, vennero richiamati dall'esiglio tutti i patrizj, e steso il catalogo delle famiglie nobili milanesi fra cui sono moltissime delle nostre terre.

      Finchè però non fossero estinti del tutto i Torriani titubava la potenza d'Ottone Visconti. E dovette accorgersene quando l'esule Cassone (luglio 1278), rimesse insieme nuove soldatesche, sottomise i castelli di Cassano, Vaprio, Trezzo, Brivio, poi tutta la Brianza e il Piano d'Erba. Non giunse appena l'inaspettata notizia ad Ottone, che mandato un grosso esercito, diede motivo ad una sanguinosa baruffa sul ponte di Brivio, terminata col trionfo de' Torriani. Allora Cressone Crivelli, postosi di mezzo ai contendenti coll'autorità che non viene mai meno in un uomo di senno, di cuore e di zelo, indusse la pace, che fu segnata in Brivio, poi confermata in Marignano (1279).

      Ma chi rispettava la pace in quei tempi calamitosi? Nuove contese tra i Visconti e i Torriani stancarono l'animo dei Lecchesi, che animati dai caldi parteggiatori della libertà, si alzarono a gridare la loro indipendenza. Intempestivo desiderio che rese più infausta la nostra posizione, poichè Matteo Visconti, subentrato all'arcivescovo, mandò Zanasio Salimbeni ad assalire improvvisamente il borgo di Lecco, che fu sottomesso e dato in preda alle fiamme (1296).

      Tornati così alla condizione di servi dei Milanesi, festeggiammo Guido Torriano, quando, cacciato Matteo Visconti in esiglio, si dichiarò capo della repubblica milanese; per lui combattemmo sotto le bandiere di Tignacca e Strazza Parravicino, potenti signori del Piano d'Erba; per lui sostenemmo l'assedio di Monza finchè tutto cedette alla imperiosa superiorità di Galeazzo Visconti. E quando contro costui fu bandita la crociata, noi Guelfi, ci unimmo alle armi pontificie, avemmo la peggio sulle rive dell'Adda, ma finalmente, cambiata la fortuna, cacciammo i Visconti da Cassano, Trezzo, Vaprio, Brivio ed anche Monza, (18 giugno 1324), ove però rientrarono ai 10 novembre dell'anno medesimo.

      Durante queste tumultuose vicende i Grassi di Cantù ardirono dichiararsi liberi, e rinforzato il loro borgo con torri e con mura, proclamarono l'indipendenza. Ma, veduto il loro pericolo, si riposero in divozione de' Visconti, appena questi cessarono d'aver a fronte la crociata. Venuti poi a contesa con Franchino Rusca signore di Como, per aver tentato di ribellargli la città, si misero in una dannosa spedizione, per cui perdettero 116 uomini trafitti nelle vie di Como, 54 furono mandati sulle forche (1333).

      Salito a capo del governo milanese l'accorto Azzone Visconti ed inimicatosi coi Grassi, tolse a questi ogni podestà, quindi s'impadronì di Lecco, ove gettò il ponte sull'Adda, e finì col sottomettersi tutta la Martesana.

      Subentratogli Bernabò, per rinforzare i suoi dominj, fabbricò i castelli di Desio e di Trezzo, compresse le ribellioni della Brianza che era insorta all'appressarsi d'una nuova crociata bandita da Giovanni XXII. nel 1373, vi commise molte crudeltà, nè finì d'opprimerci se non quando, per tradimento di Gian Galeazzo conte di Virtù, fu fatto prigioniero e cacciato a morire nel castello di Trezzo.

      Allora tutte le famiglie briantee, che si erano ribellate contro il dominio de' Visconti, ebbero da Galeazzo la liberazione del bando e la grazia di ritornare al possedimento dei loro beni[1].

      

      L'esempio delle discordie de' dominanti avea dato motivo alle discordie de' soggetti. Ghibellini e Guelfi, nomi scandalosi, senza confine, senza unità di pensiero, questi due nomi suonarono funestamente anche nei nostri paesi, dove nappe rosse e bianche distinsero le due parti contrarie. Dapprima queste contese erano suscitate da due o più famiglie prevalenti, dopo non furono che due accozzaglie di gente senza capo, senza rinomanza, che si diedero a fraterni umori, a spogliar chiese, casali, cascine, stalle, castelli, ardere biade e boschi, farsi a vicenda mille insulti e sprezzi, seme di vendetta e di sangue. Poveri tempi! povero senno di chi li rimpiange!

      Tornarono però ancora i Guelfi a mettersi sotto l'ombra d'un nome famoso, che fu Pandolfo Malatesta, al quale cedettero il castello di Trezzo; e si posero a scorazzare per la Martesana e per la Pieve d'Incino, rubacchiando, ed ammazzando a tradimento. Ma per astuzia dei Colleoni il Malatesta fu scacciato da quel castello, e si pose in salvezza sul territorio bresciano: e restarono i due nomi a capo delle nostre fazioni di Colleoni e di Visconti.

      La nostra storia da quel momento diviene più che mai interessante pei tumulti che vi cagionarono i capitani di ventura. Assedj sostenuti e ribattuti, sangue sparso a tradimento, vittorie e sconfitte funeste ambedue, sono le vicende di quel disastroso periodo quando le terre nostre risuonavano del nome e delle prodezze di Carmagnola, di Gonzaga, di Bartolomeo Colleoni, di Gattamelata, di Francesco Sforza, che più avventuroso di tutti, divorato dall'ambizione di regno, piantò i suoi accampamenti nella Brianza e con un pugno d'uomini sfidò e vinse ad un tempo i Veneziani ed i Milanesi (1447-1450).

      Nella villa del conte Giovanni Corio di Vimercate (3 marzo 1450) fu sottoscritto il trattato, che dichiarò lo Sforza legittimo successore dei Visconti. Sotto di lui fu scavato il naviglio della Martesana, colla direzione dell'ingegnere Bertola da Novate.

      Poche sono le memorie della Brianza sotto i successori di Francesco Sforza, quando ne eccettui i molti uomini illustri che vi fiorirono e l'istituzione dei feudi di Desio, Mariano, Carate, Agliate, Giussano, Verano, Robiano, Sovico, San Giovanni di Baraggia, e Mulino di Peregallo.

      Durante le contese degli ultimi Sforza e de' Francesi, vedemmo le galanterie di questo popolo avvezzare alla immodestia le nostre fanciulle, introdotta fra noi la mollezza, ed anche la versatilità ed instabilità di quella nazione.

      La battaglia di Pavia (25 febbraio 1525) tornò insieme col Milanese anche la Brianza in podestà di Francesco II. Sforza, sotto cui il castello di Monguzzo divenne il nido d'ogni ribalderia; poichè Gian Giacomo De-Medici, che per tradimento ne era divenuto castellano, si gittava ad ogni più nefanda perfidezza, rubando, ammazzando, imprigionando i signori da meno di lui, nè mettendoli in libertà se non dopo lo sborso di larghissimi compensi. Non v'è quasi terra della Brianza, che non abbia sentita una volta l'influenza di sì cattivo vicino.

      Quanto diverso da Gian Giacomo De-Medici era il suo nipote Carlo Borromeo! Nome caro, come i più soavi titoli della parentela, della amicizia, della beneficenza.

      A lui dobbiamo la riforma delle chiese e del clero, che passando attraverso al furiare di tanti bellicosi avvenimenti, aveva smarrita la moralità, la decenza, la cognizione de' proprj doveri. S. Carlo venuto più volte nella amena Brianza e salito fino ai più disastrosi casali della Valsassina e Vallassina quando colle carezze, quando colla severità, cercò provvedere al tanti abusi introdotti nei ministri del Signore e venne poi, angelo consolatore, a visitarci, ad amministrarci i sagramenti e confortarci colle parole della fede, quando eravamo oppressi dal disastroso flagello della pestilenza (1576) che per la carità operosa del santo cardinale fu detta la peste di San Carlo.

      E l'opere da lui cominciate e non ancora ridotte a termine furono proseguite dal suo cugino Federigo Borromeo, che assiduo non meno di lui volle più volte vedere questa diletta porzione del suo gregge, benchè molti pericoli minacciassero continuamente la sua vita. Ed ebbe anche egli al pari del cugino il dolore di vederci contristati di nuovo e quasi distrutti dal contagio del 1630, conosciuto volgarmente sotto la peste de' Promessi Sposi, tanta è la relazione fra questi due oggetti, che con mezzi diversi segnarono un'epoca famosa!

      Col progredire della civiltà si diminuì lo scialacquo del sangue, e noi in tutto il secolo decimosesto non abbiamo di guerresco se non la sola spedizione del duca di Roano (1635) che, tentando sorprendere inaspettatamente il dominio milanese per parte del re di Francia, attraversata la Valsassina, era giunto in vista di


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