Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
Io feci questo, e meco uomini spettabilissimi si accordarono a farlo, appunto perchè la fazione repubblicana, prevalendosi di tale deplorabile stato, e instando sopra la cessazione di qualsivoglia Governo, non si arrogasse prepotente il diritto di creare a tumulto quello che meglio le talentasse; — perchè le Provincie agitate dai Partiti municipali, non avessero motivo di repugnare;[143] — perchè le deliberazioni prese, se difettose di legalità, presentassero carattere del maggiore consenso in quel momento possibile; — perchè un simulacro di autorità costituita rimanesse; — perchè nel naufragio quanto si poteva di ordine si conservasse; — perchè il Popolo non riducesse in atto il vantato diritto di essere padrone di ogni cosa; — perchè la fazione non precipitasse irrevocabilmente il Paese al passo al quale con tutti i nervi tendeva; — perchè uscisse un Governo, che di tutelare dall'imminente pericolo vite e sostanze assicurasse; — perchè il Paese per delitti infami, o per guerre civili non s'insanguinasse; — perchè i Partiti alle ingiurie estreme non irrompessero, — perchè voi stessi, cui basta il cuore accusarmi, foste dalla procella imminente protetti.... — Quali potessero essere le azioni della plebe e dei contendenti Partiti, ignoravasi; temevansi tristissime.
Nonostante il mio affaticarmi a far credere le Camere tuttavia costituite, vedremo come i Repubblicani, e parecchi Deputati dichiarassero omai cessato nelle medesime il deposito della Rappresentanza Nazionale, la Sovranità del Paese ricaduta nel Popolo.
Chiamai i signori Generale della Civica e Gonfaloniere, e tutta notte circondato da frequente avvicendarsi di persone, conferii ad alta voce provvedendo alla pubblica sicurezza. Come supporre che mentre da un lato, con persone dabbene e principali, prendevansi misure di ordine, dall'altro con facinorosi plebei apparecchiassi il disordine? E avvertite, che io non mi mossi mai dalla stanza. La nequizia immaginata dall'Accusa supera ogni segno, e arriva alla follia. Difficilmente si cercherebbe nella storia personaggio più perfettamente grottesco, di quello che mi fanno sostenere i miei Giudici: bisognerebbe andarlo a cercare in qualche goffa Atellana, — delizia di fiera. Certamente previdi, facile presagio davvero, che nello abbandono del Governo costituito, avrebbero eletto un Governo Provvisorio. Così imponeva la necessità.
Il Decreto della Camera di Accuse afferma che Niccolini rimase con me gran parte della notte (§ 18). Questo non possono avere detto i testimoni, e d'altronde gli osterebbe il fatto, avvegnachè, durante la intera notte, io stessi circondato da moltissime persone che lo attesteranno. Niccolini si sarà per avventura aggirato nel Palazzo, come sovente usava, frugando ora quella, ora quell'altra stanza; ma, che si restringesse meco gran parte della notte, è impossibile materialmente, e per discorso di ragione. Taluno osservò, sarebbe stato salutare consiglio avere a noi i Capi dei Circoli, esortarli a restarsi tranquilli, e contenti a quello che il Parlamento avrebbe deliberato in pro della Patria travagliata; non rendessero disperata con tumulti intempestivi una condizione di cose già di per sè stessa gravissima. Mi parve savio partito, e tale sarebbe apparso, io credo, a chiunque abbia fiore di senno. Non conoscevano il domicilio di Antonio Mordini: dicono che io commettessi a Emilio Torelli di chiamare Francesco Dragomanni: io non lo ricordo, ma sarà; e se ciò è vero, devo averlo fatto richiesto da coloro che vollero adunati i Capi dei Circoli, e perchè egli indicasse, se lo sapeva, il domicilio del Mordini. Vennero eglino, i chiamati, o no? L'Accusa dice che vennero; però vuolsi notare, e credo che dal Processo si ricavi, che io non conosceva i chiamati, se togli Dragomanni, nè li vidi, nè loro parlai: altri conferiva con essi, e dovei ritenere che l'esortazioni fatte ai medesimi fossero conformi al convenuto. Insisto ad affermare, che io rimasi sempre nella mia stanza, circondato dai signori Gonfaloniere di Firenze, Generale Chigi, e, se io non erro, dal R. Delegato Beverinotti, dal Prefetto Buoninsegni, dall'Avvocato Dell'Hoste, con altri moltissimi, che io non rammento, che prego per amore della santa verità, ricordarselo per me, — e spero che lo rammenteranno.
Io già discorsi di questi fatti, perchè il Decreto del 10 giugno 1850, quantunque non mi accusasse, pure diceva, che non vi fu estraneo il Ministero, o taluno dei componenti il medesimo. Strano linguaggio sempre; nelle cose criminali, dove la vita e l'onore degli incolpati pericolano, peggio che strano, avvegnachè fra tutti e qualcheduno la differenza appaia grandissima; nello spazio che passa tra l'una e l'altra frase, cape la innocenza; e trovarci tutti accatastati, presunti colpevoli e presunti innocenti, come legna da ardere in un medesimo falò, non sembra precisamente quella che gli uomini solevano un giorno salutare col nome di Giustizia. I lettori giudichino. Il Decreto del 7 gennaio pareva avermi escluso (§ 59) dalla partecipazione dei fatti, qualunque eglino sieno stati, della notte del 7 all'8 febbraio; ma l'Accusa, paurosa che per questo strappo uscisse lo improvvido tonno dalla rete, eccola pronta a raccattare la maglia, e nel § 83 dichiara, che ebbi parte, e non secondaria, mentre era Ministro e Deputato, nelle conferenze tenute nella notte dal 7 all'8 febbraio, con i Capi del Circolo ed altri agitatori.
Di qui si fa manifesto il bisogno, che i Decreti e le Accuse specifichino esattamente gli addebiti pei quali deve lo imputato rispondere, perchè la Difesa, in diversa guisa, non sa da che parte badare, e mentre attende di faccia, si sente alla sprovvista presa alle spalle. Cotesti sono agguati buoni in guerra, ma io non ho inteso mai dire che i Magistrati abbiano ad apprendere il gravissimo ufficio dell'accusa negli Strattagemmi di Polieno...
Volete vedere come io di lunga mano col Partito repubblicano cospirassi? Come io scavassi la fossa per precipitarvi dentro il Trono Costituzionale? Come io macchinassi cacciare il Principe di Toscana? — Costretto dal rimorso, allegherò per ora alcuni brevi Documenti che daranno, senz'altra ricerca, vinta la causa all'Accusa.
Desideroso di ravvivare con la presenza lo affetto, che pur conosceva portare il Popolo livornese al suo Principe, con queste espressioni io consultava il Consigliere Isolani: «La città è tranquilla così, che si possa presentare a S. A. come una famiglia concorde ed unita ad un padre?» — (Dispaccio telegrafico, 1 novembre 1848.) — E fu risposto: Sì.
Promuovendo Carlo Massei amico mio, e non della ventura, in modo confidenziale nel 9 novembre io gli scriveva:
«A. C.
«Sei Prefetto di Grosseto. Vieni per istruzioni; mando costà Buoninsegni egregio amico mio, e persona degnissima. Gli saranno Consiglieri Corsini e Raff. Dal Poggetto. Non jattanze, non millanterie: assumete dignità pari alla imponenza dei casi, e al concetto che ho dei Democratici lucchesi. Non inasprite gli emuli, fate loro desiderare di tornarvi amici. Fate festa. Consolate il Principe che vive sempre alquanto abbattuto.»
E tuttavia nel desiderio di procacciare amore al Sovrano, che mi aveva assunto ai suoi consigli, mandava al Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 19 novembre 1848: «Adoperati a mantenere la quiete; o se volete esultare, fatelo per la generosa amnistia concessa dal Principe.»
Allo scopo di rendere vane le voci, che si spargevano ad arte di prorogata apertura del Parlamento toscano, a motivo di dissidii intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel Monitore dell'8 gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura del Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi è stata per alcun ritardo, notato nelle disposizioni necessarie innanzi a questa patria solennità, non nel dissenso del Principe, ma nella lontananza del medesimo dalla Capitale, se ne deve trovar la cagione. Del resto, noi bene ci augureremmo se in tutti gli Stati Costituzionali, Principato e Governo si accordassero così mirabilmente, come tra noi ne veggiamo lo esempio.»
A Gio. Battista Alberti, alla persona del Granduca attaccatissimo, in guisa riservata mandava: «A. C. Probabilissimamente S. A. verrà solo in Arezzo per ismentire con la sua presenza le triste insinuazioni sul conto suo, e nostro. Io ti raccomando, che le Deputazioni, le quali si presenteranno certamente da lui, lo tengano sollevato, e lo persuadano che la quiete in Toscana non può durare che continuando nel sistema governativo iniziato.[144]»
Nel giorno ultimo di gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco di Giuseppe Mazzini, mandavo al Governatore di Livorno il seguente Dispaccio telegrafico:
«Sento che verrà Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare ogni possibile prudenza. Il Granduca è lontano dalla Capitale. Un moto in senso repubblicano