Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
tribunale uomini dabbene, per colpe che mai non furono, tranne nella loro matta fantasia; tribunale per di più spregevole, come quello che già si mostrò o leggiero o maligno; — e finalmente domando io che cosa si penserebbe di un uomo il quale ti dicesse: lascia che io ti ferisca, nè richiamarti che io ti faccia torto, perchè tengo in pronto balsamo e fila per medicarti la piaga? Tali sono quei moderati scrittori, che dopo averti calunniato si protestano dispostissimi a ritrattarsi. Ipocriti! Il vostro dovere è quello di bene esaminare prima di gittare la pietra; e di coteste ipocrisie oggimai logoro è il conio.[195]
In quanto a vaghezza di onori, io prego prima di tutto di non attribuire a immodestia quanto sono per dire. Io veramente non credo che ad acquistarmi un po' di fama nel mio paese, mi abbisognasse la carica ministeriale; nè per uomo travagliato da libidine di ambizione può bastare il Ministero Toscano, di cui la fatica è pari a qualunque Ministero del mondo, superiori le ansietà perchè ogni acqua ci bagna, e ogni vento ci muove; infinitamente minore la fama. — Ma via, posto che questa febbre ambiziosa mi fosse caduta addosso, o non doveva essere sazia con la promozione alla carica di Ministro, e forse, in breve, a quella di Presidente del Consiglio? Lo intento che aveva potuto proporsi il mio cuore era già conseguito, e consisteva nel fare palese, col perdono, con la tutela, col beneficio di coloro che non pure mi erano proceduti avversi, ma nemici, quanto io fossi diverso da quello che mi avevano dipinto. E se dico questo, non faccio per rimbrottarlo, no, — o per suscitare memorie oggimai date all'oblio; io lo faccio costretto a difendermi, perchè la mia vita non è stata altro che affanno; — compatitemi, e non rimettete della vostra benevolenza che mi ridonaste. Continuiamo amici, dacchè siamo miseri assai. Intanto corse un grido che diceva: «Chiunque vuole aver bene dal Guerrazzi, bisogna che gli faccia del male.» Esagerava questo, ma la esagerazione stessa prova la verità delle cose. Possano dunque le ambizioni altrui proporsi sempre uno scopo non diverso dal mio!
Forse, avvertirà l'Accusa sottilissima, v'increbbe il Governo Costituzionale, perchè vedeste durarvi instabili i Ministeri. Certo, i Ministeri vi sono instabili e pericolosi, ma nelle Repubbliche appaiono instabilissimi e pericolosissimi; sicchè il sospetto non ha luogo. Ma l'Accusa insisterà dicendo: Forse vi prese cupidità di più alto seggio. — Vennero da Roma, una volta, deputazione di uomini distinti per natali e per condizione, ed un'altra, di messi speciali nelle ore più tarde della notte, a offerirmi carica suprema, ed io la rifiutai; e prova di quanto affermo occorre nel Decreto proposto dal Principe C. G. Bonaparte all'Assemblea della Repubblica Romana, che suona così:
«Visto che il Popolo tanto della Toscana quanto della Repubblica Romana, hanno più che bastantemente dimostrato che vogliono la unificazione sotto un regime repubblicano; l'Assemblea sovrana della Repubblica Romana:
«1º Invita i 120 Deputati, componenti la Costituente Toscana, a venire a sedere fra noi per formare la Costituente della Repubblica della Italia Centrale.
«2º Offre al Guerrazzi un seggio nel Triumvirato della Repubblica complessiva ec.»[196]
Dunque nè anche la supposta cupidità mi mosse. — Intorno ai fini opinativi è chiarito come io, dall'incominciare delle Riforme, speculando sul genio del Paese, mi scoprissi contrario alla Repubblica. Se per me si fosse voluta, nell'8 febbraio sarebbe stata proclamata in Toscana, come si vedrà più largamente in seguito; se con giudizio o no, se per durare o passare a modo di spettro, se a sostegno o a rovina del Paese, è diversa ricerca: nessuno si opponeva; i dissidenti vi erano, ma non avevano coraggio di fiatare; anzi si spenzolavano, smaniosi più degli altri, a proclamare la Repubblica; mani e piedi pestavano per volerla, e subito: per poco me non accusavano di traditore opponendomi ai legittimi voti del Popolo, al desiderio eterno riposto nell'intimo del loro cuore repubblicano. Io contemplava la nuova viltà, e sorrideva. Udite un po' come si esprimeva il Conciliatore del 28 febbraio 1849: «Che cosa possiamo sperare da coloro che s'inchinano a tutti i poteri, che stancarono le anticamere delle Corti e dei Ministeri, e che oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica? O Libertà.... quando il tuo culto era proscritto, tu conoscevi a nome i tuoi addetti; oggi, che hai altari su le piazze e su i trivii, anche i tuoi più crudeli ed antichi nemici ti portano pubbliche offerte fra le acclamazioni delle immemori turbe.» Non ti pare quasi sentire un lamento del Conciliatore che altri gli abbia vinta la mano, e possa essere reputato più amante della Repubblica di lui? Bassa voglia poi sarebbe indicare chi questi svisceratissimi della Repubblica si fossero: la morale pubblica ne scapiterebbe; e poi picchiandosi il petto, essi si confessarono pentiti e dichiararono di non peccare mai più.... fino alla prima occasione. Io non mi prevalsi nè della ebbrezza, nè del furore, nè della pazienza, nè della viltà. Eletto tutore del Popolo, e consapevole dei suoi veri desiderii, mi sarebbe parso fare opera di ladro, che carpisce la firma ad una cambiale dall'uomo preso dal vino, sospingendolo al Partito della Repubblica. I Repubblicani in questo fanno appunto consistere la mia colpa; io la mia probità. A me piace proporre al Popolo, dopo pranzo, le risoluzioni ch'egli confermerà anche la mattina a digiuno: perfida mi è parsa sempre la dottrina di mettere a repentaglio così moltitudini, come individui: più tardi, risensati, lacerano lo ingannatore, ne maledicono la fama. Io di altri Popoli nè so, nè parlo; ma affermo, che non ostante la ebbrezza e il furore di molti, gli eccitamenti interni ed esterni, la viltà e la pazienza, — la grande maggioranza dei Toscani, finchè vissi nel mondo politico, non era repubblicana; il Partito compariva, più che non bisognava, gagliardo a violentare e a distruggere, ma per creare cosa durevole, non sarebbe bastato. Questa gente, infervorata nella sua idea, non vuole comprendere come con uomini, che al vedere bandiere, udire tamburi, gridi e simili altre diavolerie, guardano trasognati, poi si ritirano in casa chiudendo le finestre, non si può creare Repubbliche. La grandissima maggioranza delle persone educate in Toscana, stando al Ministero e prima, conobbi appassionata delle vere libertà costituzionali, e non delle bugiarde che si gittano alle genti come un osso da rodere, e poi non si vogliono o non si possono mantenere; agli altri, in ispecie ai campagnuoli, bisognava dare ad intendere la Libertà come la dottrina cristiana. Io certa volta dissi alla Corona, che il Governo doveva essere educatore di libertà in Toscana, e mi parve dire bene; se i tempi sono mutati dopo due e più anni di carcere, non so, nè m'importa conoscere; ma allora era così. Intanto i Repubblicani mi regalano il titolo di stolto, e sarò; mi basta quello di onesto: ma quello che parrà più strano a credersi, si è che mentre i miei Giudici mi tengono in prigione per avere cospirato contro il Principato, e promossa la Repubblica, i Repubblicani protestano che mi ci avrebbero messo eglino medesimi, per averla attraversata: «La Repubblica Romana era divenuta per esso come uno spino, e quello spino vie più gli era infesto, allorchè gli si parlava di Unione.»[197] E poco oltre, a pagina 174, così si esprime il signor Rusconi: «Una Commissione fu istituita, che disse governare in nome del Principe, e gli amici del Principato toscano cominciarono dal retribuire Guerrazzi dei servigi fatti loro, con quella carcere che da tutti altri che da essi avrebbe dovuto meritare.»
Sicchè, a quanto pare, non ci è rimedio; io nacqui proprio nel mondo sotto la costellazione della prigione!!! — Pericula in mare, pericula in terra, — diceva S. Paolo.
Sembra pertanto che io non avessi motivo alcuno a sovvertire il Principato Costituzionale; all'opposto lo avessi grandissimo a mantenerlo.
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