Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi

Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - Francesco Domenico Guerrazzi


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Avrai per questa opera pia cento ducati. Servi fedelmente, che in breve intendo farti ricco. In vero, dove potrei impiegare il mio danaro meglio che con te?—E tu devi convenirne meco. Allontanati per la via del giardino, e procura che nessuno ti veda all'andare, nè al tornare.

      Olimpio obbediva.

      ———

      Francesco Cènci rimasto solo, forte si stropicciava le mani in segno di profonda soddisfazione, e con parole rotte favellava:

      —Stamane fu pasqua. Questo si chiama vivere davvero! Un parricidio tramato, un ratto ammannito, un furto ed uno incendio apparecchiati; poi i traditori traditi, e per giunta fatto cascare un santo. Finchè io sto in questo mondo il diavolo può andarsene in villeggiatura. Io sono il rovescio di Tito: costui gemeva se passava il giorno senza fare qualche bene: io arrovello se non ho commesso una ventina di mali. Tito!—Cerretano di umanità, gesuita del paganesimo! Giudea lo dica, e lo incendio spento dall'onda del sangue umano; e la moltitudine dei crocifissi, per cui mancava il terreno alle croci, o le croci ai corpi; e gli undicimila prigioni morti di fame; e le migliaia dei gettati alle belve in odio di avere difesa divinamente la patria[4]. Va, va, natura di stoppa, che non sapevi odiare, nè amare; piangendo lasciasti uccidere un milione e mezzo di uomini, e piangendo ti lasciasti strappare dal fianco la bella Berenice. Domiziano, tuo fratello, era fuso con bene altro metallo: cuore di acciaio; fronte di bronzo: immagine augusta di re. Il fulmine non sa distruggere cotesti semidei; se li tocca, li consacra. L'Apostata ti chiama belva d'imperatore[5]: belva tu, che andasti a farti scannare in Persia, mentre potevi condurre vita beatissima a Roma o a Bisanzio. A cui buona la vita se, dopo morte, i posteri non tremassero al nostro nome, e temessero vederci ricomparire, sbucati fuori della tomba, ad ogni tratto? Tutti rammentano il diluvio. La credenza di Dio si fonda sopra la paura, e quindi egli ebbe vittime di sangue. I tiranni si sono detti immagini del Dio di Mosè, che soffia con la sua propria bocca nel fuoco dello inferno; epperò furono temuti, ed ebbero anch'essi vittime di sangue, e tuttavia ne avranno. Se il Papa si fosse mantenuto ministro del Dio Agnello, a quest'ora lo avrebbero arrostito: le paterne viscere di Sua Santità si struggono di emulazione, perchè la piazza del Vaticano sia superata in meriti da quella di Vagliadolid. Il bene e il male tengono le mani dentro ai capelli della umanità; ma il bene glieli arriccia, il male glieli strappa. Io adoro la forza. Tutto è menzogna, tranne la forza: ella arroventa il suo marchio, ne segna alla gota le generazioni, e a furia di flagelli le disperde pel mondo:

      Tremate, maledite, e obbedite: Così quaggiù si vive, E la porta del ciel si trova aperta![6]

      Se mi fossi trovato alla battaglia, che gli Angioli ribelli combatterono contro Dio!—Dio! Dio!—Questa parola mi torna addosso come un tafano importuno, invano cacciato. Ma chi ha veduto questo Dio? chi gli ha mai favellato? Corrono oggimai cinquanta e più anni che io con ogni maniera di offese l'oltraggio, e la sua maledizione m'ingrassa i campi. Perchè mi creava egli così? Egli metteva le forbici sopra la pezza intera, e poteva tagliarmi a modo suo. E s'ei non mi creava, o perchè egli, Creatore, sofferse in pace che altri gli rubasse, e guastasse il mestiere? Anima mala: sono elleno anime malvagie le nostre? Sia; io per certo non ho ragionevole fondamento per impugnarle: ma non istava in facoltà sua farla buona, o cattiva? Poenituit! Sì? Se ei si pentiva, segno è certo ch'egli aveva sbagliato; e se sbagliò, perchè mai portiamo il peso dei suoi errori? E dove è allora la sua ogniscienza, dove la onnipotenza sua, dove lo infinito suo amore? Che penseremmo noi di cotesta femmina, la quale si avvisasse percuotere il suo figliuolo perchè lo ha partorito gobbo? E posto che egli abbia errato, come questo libro del mondo ci mostra palesemente ad ogni facciata; ma fosse poi buono davvero, secondochè ci danno ad intendere quelli che lo conoscono; o non poteva tirar di frego su l'uomo e la natura intera, e incominciare da capo? Meglio così, che impacciarsi in quel laberinto del riscatto, che a fin di conto non ha riscattato nulla. Egli fu nebbia: ha lasciato il tempo come lo trovò:—e se gli uomini prima andavano allo inferno di passo, ora ci vanno di corsa. Inferno! E sia; ed io vi andrò, per la ragione che la sentenza verrà profferita da chi è giudice e parte, e per di più senza appello. Tutti i giudici iniqui condannano senza appello. Deus autem fecit nos, non ipsi nos. Non importa: se l'anima è morta col corpo, mi piace; se sopravvive, anche di questo mi contento; a patto che non mi venga tolta la facoltà, da me fino a questo punto esercitata, di maledire per omnia saecula saeculorum; amen.

      NOTE

      [1] Questi versi, e taluni altri dei quali la citazione si omette, pronunziati da Francesco Cènci nel corso di questo Capitolo, appartengono a certo sonetto di Francesco Berni canonico fiorentino. Le anime timorate dei Gesuiti, per evitare gli scandali, provvidero che fossero applicate ai Luterani le sentenze dette dal Berni contra i Preti, conciando il sonetto così:

      Piangete, Luteran, chè il nostro Christo Cotanto vi odia, che non più si offende Del Turco, e l'errar vostro ognor si estende Per far lo stato vostro empio e tristo: ec.

      Questa mirifica trasformazione (d'altronde ordinaria nella

       fabbrica dei Gesuiti) occorre nella edizione delle Rime del Berni,

       fatta a Venezia nel 1627.

      [2] PETRARCA, Sonetti.

      [3] La inondazione del Tevere, a cui si allude, accadde al ritorno di Clemente VIII da Ferrara, ch'egli aggiunse ai dominii della Chiesa, il 23 dicembre 1598.

      [4] Veramente io per me penso che pochi uomini al mondo sieno degni del vituperio e dello abbominio dei posteri quanto Tito, con quella maschera di umanità sul volto, e con la fama usurpata di benigno. Io desidererei che i miei compatriotti tutti leggessero la Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, onde imparassero, non dico a rispettare, ma ad ammirare i Giudei, combattenti per la indipendenza della patria contro la tremenda forza di Roma. Intanto mi sia lecito riportar qui una prova, dimostrativa quale e quanta fosse la umanità di Tito: «I soldati, per isdegno o per odio inchiodavano i dati loro nelle mani, e ciò in diverse maniere, per beffa; e attesa la moltitudine, ch'essi erano, mancava il terreno alle croci, e le croci ai corpi» (l. 5 c. 6). «I Romani tanta strage fanno nella presa di Gerusalemme, che allagarono di sangue tutta quanta la città fino ad ammorzarne molti luoghi compresi dal fuoco» (l. 6. c. 8). «Ora perchè i Romani erano stanchi di trucidare, e tuttavia compariva moltissima gente, Tito manda un bando, i soli armati e restii si uccidano, il rimanente si pigli vivo:—tutto il fiore cacciato nel tempio, e rinchiuso nel ricinto assegnato alle donne: per guardia vi pone i suoi liberti, e Frontone suo amico perchè sentenziasse di quale castigo fosse meritevole ciascuno. Egli dunque, i sediziosi tutti danna alla morte; i giovani, fatta una scelta fra i più grandi e avvenenti, li destina al trionfo; della moltitudine, i di là dai 18 anni inviolli per lavoranti in Egitto; ma li più furono da Tito stesso distribuiti per le provincie ad esservi nei teatri disfatti dalle bestie o dal ferro. Quelli che non varcavano la detta età furono venduti. Ma in quei giorni medesimi, in cui Frontone ne faceva la cerna, ne morirono undicimila di fame» (l. 6. c. 9). «Mentre Tito dimorava a Cesarea celebrò con gran pompa il giorno natale di suo fratello, aggiungendovi in onore di lui il supplizio di una gran quantità di Giudei; perciocchè il numero dei periti tra nel pugnare con le fiere, e di fuoco, e nel battersi insieme, sorpassò i duemila cinquecento!.. Indi Cesare venne a Berito, e qui ancora come innanzi disertò buon numero di prigioni.» (l. 7. c. 7). Ecco qual era il fratello di Domiziano, che la buona anima dello abate Pietro Metastasio ci dipinge nella Clemenza di Tito tenero così, da far piangere di passione quante femmine odono, o leggono. Io poi ho voluto riportare questi brani di Giuseppe Flavio, onde i poco versati nelle storie non si lascino sorprendere dalla reputazione di tali tiranni della umanità, e stieno in guardia contro le ipocrisie vecchie e nuove. Le parole nulla contano, e i fatti poco, dove non sieno continui, diuturni, e non diversi mai.

      [5] GIULIANO, I Dodici Cesari,—DOMIZIANO.

      [6] PETRARCA, Canzoni.

       Indice

      ANCORA


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