Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi

Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - Francesco Domenico Guerrazzi


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cagione del tuo cuore di ghiaccio, e del tuo ghigno di vipera; a cagione delle perfide tue iniquità, e per la ipocrisia della tua anima… pel piacere che trovi nel dolore altrui; per la tua fratellanza con Caino, io ti condanno ad essere il tuo proprio inferno». BYRON, Manfredo.

      Di Francesco Cènci non dissi abbastanza. Così strano, complesso, ed anche mostruoso comparisce il suo ingegno da quanto fu esposto, e da quanto verrò esponendo nel corso della storia, che merita fermare il pensiero sopra di questo personaggio.

      Non so se adesso; ma respiravasi un giorno per l'aere di Roma tale una ebbrezza, che toglieva l'uomo dalle consuete abitudini della indole umana. I fati ordinarono, che per un tempo tutto si presentasse costà fuori della consueta misura delle cose, e piuttosto immane, che grande. Chi più valoroso di Cesare? Chi più virtuoso di Catone? Chi o più politico di Augusto, o dissimulatore di Tiberio, o truce di Nerone, o stupido di Claudio? E, per non rammentare di soverchio nomi, chi più magnanimo degli Antonini? Le donne stesse toccano la cima della libidine e della castità, della perfidia e della fede. Lucrezia, Cornelia, Porzia, Arria, Eponina[1] ebbero nascimento nella medesima città che produsse Livia, Poppea e Messalina. Gli edifizi stessi, invece di essere dominati, pare che dominino il tempo: stanno; e malgrado le ingiurie dei secoli, e quelle più nocive assai degli uomini, non furono potuti disfare. Per la Europa, per l'Asia e per l'Affrica occorrono reliquie di questo popolo portentoso, come ossa di cadavere che abbia avuto il mondo intero per sepoltura. L'Aquila romana, logorando le ale nello immenso volo di conquista, ne sparse le penne per tutto l'universo. Roma gittò dalla cima del Campidoglio una rete di ferro sopra i viventi; più tardi tentò gittarne un'altra di credenze e di paura, e conquistarli di nuovo. I Papi all'ombra del Colosseo soltanto poterono concepire il pensiero di farsi re dell'anima. Quando consentirono a ridursi in Avignone diventarono davvero servi dei servi[2]. Il Papato nello schiaffo di Bonifazio VIII patì un oltraggio, dal quale sarebbesi rilevato difficilmente: pure anche Gesù l'ebbe, e non di manco vive e regna; ma il processo, che per paura sostenne si facesse alla memoria di Bonifazio il codardo Clemente V, fu ferita insanabile all'autorità pontificia.

      Roma guerriera si avventa a modo di leone, e sbrana, o perdona la jena nemica: Roma sacerdotale seguita, come la fiera, i barbari alla lontana; ma il giorno della battaglia ella stende la mano sul bottino di guerra.—Roma galeata invia Proconsoli, che costringono i Re dentro un cerchio tracciato sul terreno; Roma mitrata invia frati con la testa scoperta e i piedi nudi a mettersi fra il taglio della scure del barbaro e i popoli oppressi. Perchè furono spediti cotesti frati? Forse per riparare i percossi sotto la veste di Cristo, o piuttosto per andare d'accordo, prima che la scure calasse, intorno alla parte delle spoglie e della carne? Lo dica la storia. Roma cade o come gladiatore combattente, o come rettile pestato: in ambedue i casi ella manifesta tremendo lo spirito di vita; imperciocchè, per quanto sia dato antivedere ad intelletto umano, essa non deva spegnersi, bensì trasformarsi. Il gladiatore cadde, allagò di sangue la terra, si rialzò, combattè ancora, e giacque quando le ultime gocce gli stillarono dalla ferita lente, pese, e rare come le prime della procella[3]. Il serpe tronco su le vertebre dura ad agitare le membra lacerate: gli basta vivere, quand'anche la sua vita non dovesse manifestarsi che con l'estreme convulsioni dell'agonia. La fiaccola romana, due volte accesa dalla destra dei fati, finchè le bastò la resina mandò di tratto in tratto vampa capace d'incenerire, o illuminare una generazione. Adesso Roma compie i suoi secondi destini: non avendo saputo, nè voluto gittare via la soma, che la incurva alla terra, ad ogni passo vacilla, ed accenna cadere. Chi fu una volta, e pretese sempre essere signore, deve sporgere limosinando la mano agli antichi suoi servi?—Temi i doni del nemico; esso si prostra, ma ridendo, ai tuoi piedi: egli venera l'autorità religiosa per tesserne un filo, e, attorto all'altro della autorità violenta, rinforzare le catene del mondo. Non trovando diritto sopra la terra, egli s'ingegna, mercè del Sacerdote, derivarne uno dal cielo. Napoleone rialzò il Pontefice perchè lo ungesse Imperatore e sparisse. Una macchina religiosa messa fuori in un giorno di festa e poi riposta, o distrutta. Quando Bonaparte prese in fastidio la sua vera, la sua gloriosa origine—quella del Popolo—evocò il Papato, come Saulle l'ombra di Samuele, onde gli fingesse origine divina. Se i diacci del settentrione non erano, adesso si troverebbero le chiavi della Chiesa in qualche museo con le altre spoglie fatte in guerra[4]. E così sempre avvenne dalla parte di Francia; talora si presentò come alleata, tal'altra come figlia devota: ella ha mentito sempre. Il suo grido è stato quello di Diogene esposto al mercato per esservi venduto schiavo: «chi vuol comprare un padrone?»

      Ma così non può durare, nè durerà. Tutte le cose nostre hanno lor morte. Il dubbio aveva roso il tronco dell'albero, ora ha prodotto un frutto di odio; le genti lo hanno raccolto, e se ne sono saziate: staremo a vedere se i vassalli di Filippo il Bello, educati alla scuola di Voltaire, faranno rigermogliare all'antico albero frutti di vita. Errore fatale! Cesare che fu spento alla sprovvista, e Dionisio a cui consentirono prolungasse la vita con pane di obbrobrio, non morirono finalmente di pari morte entrambi?—Morirà Roma sacerdotale, non però la Chiesa di Cristo. Come il nostro Redentore, gittato lontano da se il coperchio del sepolcro proruppe fuori luminoso dei raggi della eternità, così la Chiesa lanciati nel fiume gli ornamenti terreni, che la fanno scambiare con la donna dell'Apocalisse[5], inebriata del sangue dei santi si porrà dinanzi alle generazioni avviandole su pel cammino del cielo.

      Dal ribollimento portentoso della barbarie, che tenne dietro al naufragio della civiltà romana, non dovevano galleggiare due teste coronate, nè nuovi tormenti e nuovi tormentati: sibbene la Croce vincolo comune di popoli fratelli, benedizione a tutte le genti che vivono in pace nella terra dei loro maggiori. Se ad ogni modo il Padre dei fedeli voleva presentarsi incoronato, Cristo aveva insegnato di che cosa dovesse comporsi la sua corona; tutte le gemme del mondo non valgono una spina della corona di Cristo!—

      Queste verità furono predicate ab antiquo dal senno italiano; ma comunque ripetute a sazietà, non riescono meno pericolose a cui le dice, nè meno odiate a cui le dovrebbe ascoltare, e non le ascolta. Molti dei nostri grandi, che le professarono, riposano adesso in Santa Croce sotto monumenti fastosi; se vivessero sarebbero travagliati in carcere; dove ora io mi trovo vicino a cotesto Tempio, sperando a mia posta nel sepolcro, se non fama, riposo.

      Giudici e Sacerdoti affermano essere gravi errori cotesti; e non solo lo affermano, ma lo provano con le prigioni e gli esilii: a lasciarli fare brucerebbero ancora. Lo ammonimento: Amate la giustizia, o voi che avete a giudicare la terra, non trovò eco nei loro orecchi. Aghi calamitati vòlti sempre al polo della tirannide e dello errore, un giorno saranno a posta loro giudicati.—Beati quelli di cui il peso sarà trovato giusto in quel giorno!

      Francesco Cènci fu alito corrotto di antico genio romano; alito latino uscito fuori da un sepolcro scoperchiato, ma pur sempre alito latino; ebbe indole indomata, talento schernitore, anima implacabile, e cupidità dello immane, del mostruoso, e del grottesco. Se fosse vissuto ai tempi di Giunio Bruto non solo avrebbe condannato i suoi figliuoli, ma, spingendo la violenza contro la natura oltre il possibile, gli avrebbe decapitati di propria mano. Fu vaghissimo di scienza, che poi, come Salomone, dileggiò, chiamandola vanità e travaglio di spirito; ovvero se ne giovò nella guisa, che i Sibariti adoperavano le rose come istrumento di morte. Ebbe ricchezze, e le profuse senza poterle distruggere. Con immensa potenza di sentire, pensare ed operare egli vide pararglisi innanzi le due vie del bene e del male. Breve, a cagione dei tempi, il cerchio del bene: qualche affetto domestico, facoltà di fondare chiese o monasteri, sollevare la povertà con la elemosina, che la perpetua; vita placida; morte oscura; memoria durevole quanto l'eco della voce del monaco, che ti canta il miserere per le navate della parrocchia.

      Nè il secolo in cui viveva consentiva estendere le forze portentose dell'anima sua a prove maggiori: cotesti erano giorni di agonia per lo intelletto italiano; il cielo nostro vestiva la cappa di piombo degl'ipocriti di Dante, la quale permetteva a quelli che vegetavano sotto di andare in cento anni appena un'oncia. Nonostante si provò a operare grandemente; uomini e cose gli si strinsero intorno come la camicia di Agamennone, sicchè presto il bene gli venne in fastidio, poi gli parve abbietto, finalmente l'odiò. Si volse al male, e gli disse, come il Demonio,—sii il mio bene!—Gli piacque la parte di Titano, e gli parve magnifica audacia levare la fronte ribelle contro il cielo, e sfidarlo. Riposto nel male ogni suo desiderio, siccome ogni mezzo per salire in fama, lo amò col delirio


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