Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi
basta. Se l'uomo pensasse che questi eccelsi luminari, che queste belle luci di amore, portento delle notti serene, hanno a chiudere le palpebre nella morte; che tutto, anche le rocce di granito, ossatura della terra, ha da sformarsi… Se l'uomo, dico, a queste cose pensasse… atomo infelice balestrato dall'utero della donna nel seno della morte, tormenterebbe egli per essere tormentato?—O grano di sabbia maligno! tu ardisci perfino avventarti dentro gli occhi di Dio, e farli lacrimare di spasimo…—
Ma intanto questa bella e magnifica natura non può rimanere lungamente desolata; ed ecco non per anche il sole è scomparso da una parte dello emisfero, che dall'altra si affaccia la luna.—Benvenuta, amica delle anime afflitte; benvenuta, compagna dei nostri trionfi: anche vestiti della tua luce si mostrano maestosi alle genti il Campidoglio e il Colosseo; anche al lume dei tuoi raggi negli archi di Tito, di Costantino, di Severo, e nella colonna Trajana si vedono le immagini dei popoli vinti. Ahimè! Luna, che percorri frettolosa il cielo di Roma, tu non vedrai più nemici vinti, se non iscolpiti sopra i monumenti degli antichissimi capitani.
Nella notte, al chiarore di questa luna, quando Roma dorme più profondo il sonno dal quale sarebbe misericordia che non si destasse mai più, le larve dei famosi capitani scoperchiano le vetuste sepolture, e vengono silenziose a visitare la terra donde dettarono leggi ai re del mondo; la rupe, che seppero difendere; il luogo dove Cammillo vide la spada di Brenno gittata su la bilancia per aggravare il peso della nostra vergogna…: la vide, ma nessuno dei barbari passò i monti a raccontarlo alla sua moglie. All'alba si dileguano perchè odiano la vista dei viventi, e aborrono esser vedute piangere!—È fama che sul fare del giorno, quando i morti rientrano nelle antiche sepolture, si spanda lungo pei campi un gemito, che lamenta così: «Grande fu la gloria, ma l'abiezione è senza misura maggiore; e tu, o Re del mondo, e fino a quando?..»
La miseria di Roma vince la desolazione dei sepolcri. Beati i morti! Perchè ti chiami Città eterna?—Oh! rammenta, che ai tempi della tua antica religione tu credevi eterno anche il marito dell'Aurora.—Eterno, ma caduco, Titone venne in tanto odio di se, che reputò grazia somma dei Numi essere convertito nello stridulo animale, fastidio dei giorni di estate: fu un lieto giorno per lui quando potè scambiare la sua miserabile eternità con la vita di una cicala. Perchè ti chiamano Città eterna?—La religione, a cui tu credi adesso, t'insegna come vestirono Cristo con le insegne reali per vituperarlo più crudelmente. Dio nel suo furore sembra ti abbia condannato, pur troppo, ad una eternità… ma è quella del pianto.
Beatrice prostese il busto fuori del parapetto dicendo:
—Là, là oltre cotesti colli avvi una terra feconda, che la Madre nostra portò in dote a Francesco Cènci: ivi è una chiesa dedicata ai santi apostoli Pietro e Paolo. In cotesta chiesa, dentro un sepolcro di marmo—a mano diritta di coloro che entrano—lungo la parete giacciono le ossa della nostra madre benedetta.
E mentre, levato il braccio, additava il luogo acconsentendo con tutta la persona all'atto, fortuna volle che dal seno le uscisse una lettera e un medaglione, e cadessero giù nel giardino.
—Oh Dio, il mio segreto! urlò la giovane con grido straziante, divampando in volto per la vergogna.
Francesco Cènci, appiattato dietro un bosco di lauri, da gran tempo stavasi a contemplare coteste due creature fisso così, che pareva volesse avvelenarle col guardo. Appena egli ebbe visto cadere il foglio e il medaglione, si mosse frettoloso per prenderli; non tanto presto però quanto lo spronava il desiderio, che la gamba offesa gli arrecava impedimento. Beatrice lo scòrse costernata, e con suprema smania ripetè due volte:
—Il mio segreto! il mio segreto! La mia vita a chi mi salva il segreto!
Il fanciullo guardò lei, fattasi in volto del colore della morte,—e guardò il vecchio;—quindi risoluto, e pieno di ardimento, con disperato sforzo attaccandosi alle bozze sporgenti della terrazza, discese nel giardino, e pronto come il baleno ebbe ricuperato il foglio ed il ritratto.
—Vieni qua, urlava il vecchio rabbioso… vieni qua… portami cotesta roba…
E poichè Virgilio, fingendo non lo sentire, prendeva la via per tornarsene difilato a casa, il Conte imbestiando nel suo furore muggiva:
—Vipera maladetta! Portami il foglio… e tosto… Se ti raggiungo, ti strappo il cuore con le mie proprie mani.
Il fanciullo più, e più sempre affrettava il passo. Francesco, cieco d'ira,
—Nerone!—grida—Qua, Nerone… su… addosso… e con ambedue le —mani aizza il cane contro il figliuolo—addosso… addosso…
Il cane si slancia furiosamente, invano però; chè Virgilio quantunque avesse già percorso buon tratto di via, pure, sembrandogli sentirsi le zanne del mastino nelle vive carni, aveva messo le ali alle piante:—non fuggiva, volava. Salì i gradini a due a due; e con terribile anelito, estenuato di forze, giacque sul pavimento, depositando ai piedi di Beatrice la lettera e il ritratto. La fanciulla l'una e l'altro ripose precipitosa nel seno.
Poco dopo ecco il cane irrompere sopra la terrazza latrando: aveva gli occhi di brace: esalava il fiato fumoso. Beatrice, improvvida a qual partito appigliarsi, volge attorno lo sguardo, e scorge dentro una nicchia un trofeo di armi antiche posto ad ornamento della loggia: afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente fratello. Il mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per isbranarlo: la fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un colpo così potente, che penetrandogli il petto gli fende il cuore. Il cane si rotola nel proprio sangue, e traendo doloroso guaito spirò.
Sovrasta nuovo pericolo, e più grave. Francesco Cènci sopraggiunge tempestando, con lo stile alla mano: balbuziente per furore, egli grida:
—Dov'è la mala vipera? Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato Nerone?…
Chi?
—Io.—
—Ebbene; anche tu… ma no, prima la vipera.—
E si china sul figliuolo per iscannarlo. Beatrice solleva la spada insanguinata, e, puntatala contro il petto di Francesco Cènci, con espressione impossibile a riferirsi dice:
—Padre… non ti accostare…
—Scellerata! Da parte; dico,—e si provava di arrivare il giacente.
Beatrice con voce tremendamente pacata ripetè:
—Padre, non ti accostare!
A cotesto suono, che conteneva a un punto una suprema preghiera ed una suprema minaccia, Francesco Cènci si ristette a contemplarla.
Dov'è la vergine dal dolce sembiante? Gli occhi di Beatrice, dilatati in guisa strana, pare che avventino fiamme: le narici aperte sussultano: le labbra compresse, il seno palpitante, i capelli sciolti le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra ferma, e tesa in avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso, e la destra accosto al fianco armata di spada con la punta in alto, in atto di ferire. Nè pittore mai nè scultore varrebbero ad effigiare cotesto portentoso simulacro, nè la parola lo può. La fanciulla appariva tale, da non sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada, che difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe dir niente; perchè come fosse quel cherubino noi non sappiamo: ella era quale si mostra anche oggi la vergine romana, quando rammenta che nasce del sangue di Clelia. Francesco Cènci ne rimase percosso; si pose estatico a contemplarla, lasciò calare la mano armata, gittò via lo stile; sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa gittò lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di lei le braccia aperte, esclamando teneramente:
—Sei pur bella fanciulla!… Oh! perchè non mi ami?…
—Io?—Vi amerò… e gli si avventò al collo.
Il padre e la figlia si strinsero in religioso abbracciamento.
Ma il bene durava nell'empio vecchio quanto un baleno. Egli provava per un sentimento di umanità la paura stessa, che altri proverebbe per un rimorso. A un tratto ecco apparire i segni del parossismo del delitto: gli si corrugano gli occhi, le palpebre tremano di quel riso sinistro che faceva abbrividire; le