Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


Скачать книгу
del Testa tentava ancora di celiare: Ferrari costruiva impalcature, per le quali i personaggi salivano come manovali, la schiena carica di tanti frammenti di una tesi: Torelli, un novizio, che alla prima prova era parso un maestro, ridiventava mano mano uno scolaro; Marenco imperversando pestava idillio e tragedia; Bersezio credendo di dipingere qualche scena non si accorgeva di pitturare appena una quinta, e il nostro teatro italiano era sempre uno scalo dell'arte francese. Però la sua illusione abbacinava il pubblico, che intronato dai critici gazzettieri, cominciava a credere nella nuova arte.

      Allora due nuovi scrittori comparvero nell'arringo: un bozzettista, che si fece poi viaggiatore: un novelliere, che salì fino al romanzo, De Amicis e Verga. Al primo salto oltrepassarono tutti e nessuno li ha ancora sorpassati. Quegli s'impossessò della fibra scossa dall'Aleardi, ed ottenne un secondo trionfo di lagrime. Soldato formò dei soldatini di piombo per il pubblico, che ne impazzì, perchè piangevano senza perdere la vernice: li depose nel proprio libro come dentro a una scatola, e il libro diventò una strenna. Tutti vollero averlo, la bottega dell'editore fu messa a ruba. Ma nessuno di quei soldati era dell'esercito che aveva fatto l'Italia, nessuno aveva la fibra dei veterani del trentuno, nessuno l'impeto lirico dei ribelli del quarantotto, nessuno il sentimento epico dei volontari del cinquantanove. Invano Garibaldi aveva difeso Roma da tutta l'Europa, invano Lamarmora più tardi aveva salvata la medesima Europa alla Cernaia, e le aveva per prezzo del servizio dimandato l'Italia; invano tutti i villaggi erano clamorosi di soldati e di racconti guerreschi, gli eroi ed i martiri caldi di entusiasmo e di ferite: De Amicis invece di vedere e di ascoltare, aveva monturato i versi dell'Aleardi, e ne avea fatti tanti soldati. Nullameno i paesaggi salvarono le figure dei quadri, e la madre del figlio fu la più nobile e fortunata risorsa dello scrittore. Verga più coraggioso e più acuto sfiorò appena l'idillio e cercò il dramma. I suoi primi libri furono più un ricordo che una scoperta, ma imitando gli altri finì per trovare se stesso; e oggi, dopo un raccoglimento di qualche anno, ricompare più severo e più italiano, mentre Fogazzaro tenta di oscurarlo colla sua Malombra, Faldella vezzeggia ancora nei racconti, Barrili trova lettori per le proprie immutabili favole, orlate della stessa immutabile frangia di riflessioni; Capuana ne cerca per i suoi nuovi e piccoli esperimenti naturalisti, e il Pratesi quasi ignorato ne merita.

      Che se il romanzo aspetta ancora il proprio grand'uomo, il teatro ieri ha perduto uno dei suoi migliori, che molti credevano tale, Cossa è morto improvvisamente. I suoi primi saggi passarono inosservati, poi diede il Nerone, e l'Italia che giustamente si era appena voltata all'Arduino del Morelli, ed avrebbe dovuto voltarsi al San Paolo del Gazzoletti, svenne quasi d'entusiasmo davanti a questo capolavoro di una sera. I critici da giornale unirono in coro teorie ed applausi; si parlò di arte nuova, di uomini, che sulla scena venivano dopo tanti secoli a sostituire i personaggi, di una storia e di una vita, che uscirebbero rinnovellate da quest'arte. I drammi successivi, per quanto poveri, non valsero a smagare queste promesse, alle quali il poeta nella sua contegnosa modestia non aveva forse mai pensato, e il nome e l'arte del Cossa invasero pubblico e scena. Ingegno lirico senza profondità di sentimento nè elevatezza di pensiero, invece di concepire un dramma trovò spesso una scena, ve ne mise altre intorno, e lo fece; ma sempre lirico ripetè le stesse figure o le stesse idee, sostituendo una stampiglia ad un'altra, applicando alla storia la piccola pittura di genere invece della grande pittura accademica. Se non che a forza di impicciolire i personaggi, li fece quasi passare per uomini e credere vivi, benchè campati nel vuoto e moventisi per una scena, nella quale l'impero romano, reso con un processo di decalcomania, aveva appena il valore di una ornamentazione da piatti. Come tutti i piccoli, che la piccolezza inconsapevole rende temerari, affrontò tutte le epoche, si attaccò a tutti i colossi, Mario e Nerone, Cleopatra e Messalina, Beethoven e Ariosto, Giuliano l'Apostata e il Duca Valentino, alla repubblica di Rienzi e a quella di Cirillo, mettendo sempre un'epoca intorno ad un individuo, come si mette la paglia attorno ad un bicchiere, perchè non si rompa; poeta senza verso, dopo che Foscolo e Manzoni avevano scritto i versi dell'Aiace e dell'Adelchi; drammaturgo senza potenza di evocazione; artista, che del teatro aveva imparato la decorazione ed il macchinismo. Non avendo fiato per le tragedie, credette di salvarsi chiamando drammi le proprie, ma in questi drammi, ai quali la volgarità della forma avrebbe pur sempre conteso l'esistenza, non seppe convenire le vere fisonomie tragiche, le fatalità psicologiche o storiche, da cui solamente il dramma si forma. Ma il pubblico ristufo dei gentiluomini apocrifi del Ferrari si apprese ai romani falsi del Cossa, e contrapponendo per un istante l'uno all'altro i due scrittori, li riunì come due amici nel medesimo applauso. La fortuna di questi romani usuali ne attirò altri: drammi e romanzi pullularono. Tito Vezio e Spartaco tornarono col Castellazzo e col Giovagnoli per mettersi il nostro sentimento moderno sotto la loro tunica antica. Cavallotti, condannato dal destino alla rivolta in politica ed alla imitazione in arte, per essere originale seguendo il Cossa, andò in Grecia; ed egli, il poeta più sgraziato nella forma, rappresentò il popolo più poetico della terra: non pensando che scrivere una tragedia greca dopo Eschilo era una follia, e bisognava chiamarsi Shakespeare o Goethe, perchè la follia potesse essere genio; dopo Sofocle era un'imprudenza e bisognava essere un poeta come Foscolo, perchè la profonda umanità del sentimento e la irresistibile bellezza del verso la facessero perdonare. Ed invece parmi che a Milano l'Aiace fosse fischiato la prima volta. Col Cavallotti si unì il Salmini, ingegno rozzo, ma più forte; artista forse altrettanto scomposto, ma più serio. Ed ora è morto egli pure. Poi fra tutti questi rantoli di tragedie il Giacosa mise il riso gaio di una fiaba, che per un'ora trionfò di tutto e di tutti; senonchè temperamento delicato e spirito fine, salito trionfalmente dalla leggenda medioevale alla commedia goldoniana, volle essere tragico, come i tragici, che aveva quasi fatto dimenticare, ed allora il vincitore fu vinto. Ma col Giacosa avevano già preluso il Martini ed il De Renzis tentando i proverbi; però, se il primo valeva infinitamente più del secondo, nessuno dei due ricordò nemmeno da lungi il Marivaux o il Musset: invece di cammei fecero delle stampe, non furono abbastanza poeti per avere le perle, abbastanza orefici per saperle legare. Quindi il Martini arrischiò il racconto, e piacque; il De Renzis pretese al romanzo, e decadde.

      E in questa catena di opere e di scrittori, che doveva legare il teatro italiano moderno al teatro italiano antico, che l'Italia non ha mai veramente avuto malgrado il Goldoni; nella quale Cossa colava il il bronzo delle statue antiche, Ferrari la ghisa dei mascheroni moderni, l'ultimo anello fu il solo, che non si rompesse sotto lo sforzo della critica. Il teatro popolare, che colle radici piantate nel cuore del popolo, fuori di ogni abitudine classica, prosperava più forse per un rigoglio di natura, che per una coscienza artistica, trovò nel Gallina il proprio instauratore. Il quale, giovandosi col tristo esempio del Torelli, che aveva fatto accettare sulla scena il proprio dialetto italiano, v'impose il vernacolo di Goldoni; il pubblico accorse, applaudì, non osò sentenziare fra questo principiante e i decani, fra quest'arte fresca e quell'arte decrepita, ma l'incertezza del pubblico fu il maggiore dei trionfi, giacchè per la prima volta il pubblico si trovava in faccia a del nuovo. Gallina aveva vinto, il teatro era nato: ma siccome i bambini non divertono che per una mezz'ora, quelle sue commedie, penetranti come un vagito e graziose come un sorriso, non potevano, e non possono bastare alla vita di un teatro.

      Nè questa guerra nell'arte fu solo di uomini, chè sull'orme di Sara e di Ouida, due inglesi della colonia italiana, molte donne, che l'esempio della principessa Trivulzio ed il più alto ancora della Lorenzi non aveva scosso, entrarono in lizza. Ma siccome le donne, che pensano, sono una rarità nel loro sesso; così le donne, che scrivono, debbono avere il valore di una grande eccezione nel nostro: una scrittrice o è molto o è nulla; le nostre non furono che troppe. In un secolo, al quale la Stäel apre la soglia, George Sand illumina il meriggio, Giorgio Eliot rinchiude le porte del sepolcro, la donna che vuol perdere il proprio sesso, facendosi scrittrice, deve barattarlo con un'immensa gloria sotto pena di fare un contratto altrettanto dannoso che ridicolo. Certamente il pensiero non ha sesso, ma la sua è una fatica talmente maschia, che le donne non possono sopportarla, o sopportandola, vi si snaturano.

      Ed ecco l'arte dell'Italia fatta dirimpetto all'arte, che ha fatto l'Italia.

      Che cosa è il Nerone in faccia all'Adelchi? l'Arduino di Ivrea in faccia all'Arnaldo da Brescia? Che cosa sono i Rossi ed i Neri del Barrili in faccia all'Assedio di Firenze? Una volta i filosofi italiani si chiamavano Rosmini,


Скачать книгу