Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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un monumento, che le consacrerebbe il primato fra le nazioni, l'avesse occupato, nessuno avrebbe potuto porsi al suo fianco: ma l'imperatore Marco Aurelio vi è appena una decorazione, incomparabile artisticamente, e senza storico valore. Perchè dunque tutti non hanno gridato: in Campidoglio, in Campidoglio!? Perchè quest'idea non venne ancora in mente ad alcuno? Perchè non si è sentita la necessità di riannodare la nostra storia all'antica, mantenendo la grande tradizione romana, che pure è la sorgente di tutta la vita moderna? Perchè rompere la serie dei periodi nella eterna idea dello stato, abbandonando il Campidoglio, che la repubblica di America ha dovuto copiare per ingrandire con questo simbolo il proprio fatto? Perchè lo stato moderno non risale il Campidoglio per provare alla chiesa la propria indipendenza, e al mondo la eternità del loro dualismo parallelo e fatale? Rienzi, che sognò forse primo la nuova Italia, morì sui gradi della scalea capitolina; perchè Vittorio Emanuele, che ha riparato la sconfitta di quel vinto sublime, non la monta, e mettendosi sul piedestallo di Marco Aurelio, calmo altrettanto, non mostra al mondo che tutte le epoche storiche si verificano solamente in Campidoglio, e che la libertà moderna per essere immortale deve prendere il posto dell'antica?

      Forse metteranno Vittorio Emanuele in una piazza recente di Roma; così il rappresentante di tutta la nostra epopea sarà trattato come i rappresentanti delle sue fasi, poichè Cavour, Mazzini e Garibaldi dovranno egualmente occupare una piazza romana, ed allora col sentimento epico della rivoluzione avremo perduto la coscienza della nostra storia. E poichè ad ogni errore di testa, ne segue fatalmente un altro di cuore, e quando la testa si annebbia, il cuore marcisce, si sono invitati perfino gli stranieri al concorso per questo monumento, che costerà nove milioni, come se si trattasse di una grand'opera decorativa e non di un simbolo, che l'unità monarchica del fatto costringe nell'unità individuale del re; mentre avvenuto colla unità repubblicana, il simbolo avrebbe avuto una unità allegorica; come se a questo monumento, che noi facciamo a noi stessi, perfino i manovali e la sabbia non dovessero essere italiani.

      Ed ecco, mio nobile esule, come la letteratura è prostrata in Italia, perchè, figli di ribelli conquistatori, noi abbiamo questa ciera da domestici, accattiamo originali da copiare nei libri e nelle leggi, e antesignani nelle scienze e nella filosofia, nell'arte e nell'industria, anche quando eravamo servi dello straniero, oggi liberi ed italiani non abbiamo nè l'orgoglio del passato, nè la dignità del presente. Forse non si è osservato abbastanza come i figli dei grandi uomini siano quasi sempre al disotto della media, in contraddizione con tutte le leggi biologiche: ma forse questo fenomeno, che dipende dall'enorme consumo di forze, onde si distinguono le grandi vite, si verifica egualmente nei popoli. Dopo la rivoluzione dell'ottantanove e l'impero napoleonico, due immense combustioni di pensiero, la Francia fu esausta e cadde sotto la restaurazione, un governo anche più piccolo nelle idee, che nei fatti; ma la decadenza fu effimera, e i bambini nati a quell'epoca, composero quella splendida fioritura d'ingegni, che va oggi morendo. La vita è immortale, e le giornate del tempo sono senza numero: però ogni giornata è chiusa fra due crepuscoli, e il nostro meriggio durò dal quarantotto al cinquantanove. Forse i grandi scrittori, che dovranno mantenere la nostra gloriosa tradizione sono già nati e tempestano nelle scuole elementari: fors'anche qualcuno dell'avanguardia a quest'ora si dibatte nei primi dolori del genio e dubita di se stesso, come tutti i forti. Coraggio, incognito infelice! Al pari di te noi tutti provammo le angoscie del dubbio e le ebbrezze della fede, delirammo di orgoglio e di umiltà, nel nostro secreto ci credemmo gli ultimi ed i primi. Come tu fra poco, avventammo il nostro libro primo nato, quasi uno squillo di fanfara in un mattino di battaglia; ma noi ci battevamo sotto l'eccelso monumento eretto dai nostri padri e la sua ombra agghiacciò il nostro entusiasmo. Ci sentimmo piccoli e deboli. Come gli egiziani moderni, che guardando le piramidi millenarie non hanno più nemmeno il coraggio di alzare una casipola, e spiegano lungo le vie le stuoie per dormirvi, noi scrivemmo articoli e bozzetti, romanze e canzoni, radunammo parecchi materiali e finimmo per servirci sopra. Invano gli stranieri ci derisero, invano i superstiti di quell'epoca gloriosa ci incuorarono: colle forze ci venne meno la fede, ed allora ridemmo, perchè il sorriso della incredulità cela spesso il sogghigno della impotenza. Chiunque tu sia, che applaudiranno domani, tu sarai fatale a noi tutti, giacchè i nostri abbozzi spariranno nelle tue opere, e i nostri nomi si perderanno dentro il fracasso del tuo. Larve del diluculo noi spariremo all'alba; manovali innominati, che ammassammo la sabbia ed i mattoni, moriremo appena arrivi l'architetto del nuovo monumento. Questo è il destino di tutti i deboli, che la natura dispone a gradini nella sua scalea, sulla cima della quale non arrivano che i forti; embrioni compassionevoli, noi vivremo nella vita del genio, che realizzerà la nostra forma, come tutti i malati e gli incompleti vivono della vita che i robusti fanno alla umanità.

      Non ridere, incognito superbo, del nostro sogno, che tu dovrai attuare; il nostro dolore è comico, il tuo sarà tragico, ma pur sempre dolore.

      Allorchè un contadino montato sopra uno dei tuoi puledri russi, che qui vincono tutte le nostre corse, ti recherà dalla città più vicina questo mio nuovo libro, parmi d'intendere fin d'ora il tuo malinconico ed amichevole: ancora! e ancora un errore, giacchè non è nemmeno un vero quartetto! Ma non ti dolga troppo dei tuoi saggi consigli, poichè l'effetto oramai ne è maturo. Entrato, tu sai perchè, in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè scenderò alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte: pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità del mio pensiero; dissi tutto, forse dissi male, però dissi. Nella società due sole persone possono essere senza riguardi, il lazzarone ed il principe, ed essendo liberi, sono forse i meno sfortunati: lazzarone del pensiero, io volli essere pari al principe nella libertà, e se le mie parole dovevano andare perdute, non compresi perchè avessero ad essere menzognere.

      Questo libro è il principio della fine.

      Domani comincerò il , e sarà l'ultimo della serie concepita dieci anni fa. Tu ne conosci le idee, e ne indovini meco la sorte. Sarà la suprema battaglia perduta, dopo la quale, anche essendo buon patriota, mi sarà permessa la ritirata; la coscrizione non dura adesso che tre anni, io ne avrò passati dieci sotto le armi. Un proverbio dice che una bella ragazza non può dare più di quello che abbia, e gli scrittori buoni o cattivi non sono in migliori condizioni; laonde raggiungerò forse la tua vita di coltivatore, lasciando ad altri lo sfracellarsi inutilmente il cranio contro le porte bronzee della gloria, o l'aprirle validamente coll'appoggiarvi solo un dito.

      I deboli tentando la prova sono eroici, ostinandovisi diventano ridicoli. Forse, anzi senza forse, la prova è già fallita, ma la costanza non è composta altrimenti della caparbietà, e non è facile nè a chi le ha, nè a chi le giudica, il distinguerle nettamente.

      A rivederci dunque.

      Quando il tuo cavallo russo ti sprofonderà galoppando dentro la steppa, e il tuo occhio si riposerà nell'infinito della pianura, e il verde della terra e l'azzurro del cielo si fonderanno in una sola sensazione entro il tuo cuore, in una sola idea entro il tuo cervello, ricordati, se puoi, l'amico lontano, del quale la fantasia prediletta è sempre stata di partire dal mondo sopra un cavallo nero, stellato sulla fronte. È una fantasia senza significato, ma che mi appare sempre al pensiero, nella stanchezza di una meditazione, o nella noia di una distrazione. Mi sembra di vedermi innanzi il cavallo sellato, e di avere agli occhi il deserto. Il cavallo è alto e leggiero, la criniera gli tocca i ginocchi, la coda gli batte i garretti: è senza testiera, la sella è piccola, il deserto è sconfinato. In sella adunque e al galoppo:

       Allons, capitaine, appareillons pour l'infini

      come urlava il marinaio di Baudelaire alla morte.

      In sella ed al galoppo, ecco adesso la tua vita: a rivederci dunque, nobile esule, a rivederci forse nella steppa, nel silenzio della natura, nel deserto del mondo, nella solitudine dell'infinito.

      Ottone di Banzole.

       Indice

      Annottava.


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