La vendetta paterna. Francesco Domenico Guerrazzi

La vendetta paterna - Francesco Domenico Guerrazzi


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poi aggravandosi il male lo munirono dell'eucarestia, l'unsero con l'olio santo; breve, lo provvidero del viatico per imprendere il gran viaggio. In quel punto monsignor vescovo si allontanò un momento per confortarsi. A dire il vero suonavano allora le ventuna, e monsignore aveva pranzato a mezzogiorno; ma la fatica sofferta, e forse anche, chi sa, la vista dei patimenti dello agonizzante gli avranno messo appetito: a fin di conto non lo abbandonava solo; anzi lo lasciava in buona compagnia: stola su i piedi, e Cristo al capezzale.

      Noi altri servi stavamo intorno al letto pensando che di ora in ora passasse, quando il moribondo mandò fuori dalla gola un suono inarticolato dal quale intendemmo, si può dire a caso, ch'egli prima di morire desiderava vedere il suo figliuolo Pompeo. Andai pel putto, e lo collocai tra suo padre e il crocifisso di argento: il povero figliuolo si struggeva in lacrime; e veramente egli era un caro garzone come i suoi fratelli, eccetto quel negozio della matrigna, che non vo' negare un tantinello abbrivato. Il vecchio cessò dal pianto alla vista di don Pompeo: con occhi infiammati guardava prima fisso fisso il putto, poi il Cristo: stringeva i labbri, gonfiava le gote: le vene ingrossate e di colore di piombo stavano a un pelo per iscoppiargli su per le tempie e nella gola: si conosceva espresso com'egli si adoperasse a raccogliere tutti i suoi spiriti vitali in uno sforzo supremo, e, come piacque a Dio, secondochè desiderava gli riuscì; avvegnachè gli venisse fatto di sciogliere la lingua, e pronunziare distinte le seguenti parole[3]:

      « — Signore, tu hai detto: chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia. Io nel tuo santo nome maledico gli scellerati, che uccisero di mala morte quella povera creatura senza pietà per l'anima sua, e me loro padre precipitarono violentemente dentro il sepolcro. Assenti col tuo volere alla mia maledizione, e fa che se ne vedano anche in questa vita i segni espressi per terrore dei malvagi, e per conforto dei buoni. Esalta poi questo innocente, benedicilo in ogni pensiero del suo cuore, in ogni opera delle sue mani; e come solo si astenne da contaminare di sangue la dimora dei suoi nobili maggiori, così rimanga di sua schiatta solo ad abitarla, ed a lasciarla in retaggio ai figli dei suoi figli.» — E forse intendeva favellare di più; ma la lingua ingrossata gli negò lo ufficio, ed ei si tacque: — nella notte passò.

       Indice

      Ora voi altri, se già non lo sapete, avete da sapere come in Roma s'incontrino tre maniere di giustizia: una per noi cavalieri della foresta e gentiluomini delle strade maestre, ed è di canapa bianca rattorta a meraviglia, e bella: la seconda pei signori della città che possiedono più lignaggio che ducati, ed è di ferro forbito e tagliente, da mettere la voglia in corpo di provare una seconda volta a cui l'assaggiò la prima: la terza spetta ai signori che hanno più scudi che nobiltà; e questa è di cera, avvegnadio prenda il marchio dalla moneta che vi s'impronta sopra. Ora i Massimi possedevano ricchezze stragrandi e parentado potentissimo, in ispecie li signori Principi Colonna, i quali tanto e tanto s'industriarono presso Cardinali e Auditori di ruota, che ottennero, quantunque con difficoltà assai, la liberazione del bando pei signori di santa Prassede.

       Tornarono i padroni a Roma — notte tempo: — taciti, guardinghi rientrarono nel palazzo dei loro maggiori, non altrimenti che se fossero ladri venuti per rubare. Salite le scale si avviarono alla stanza mortuaria del marchese Flaminio; ma per arrivarvi fu loro mestieri attraversare la sala dove avevano ammazzata la bella Siciliana. Appena misero i piè sopra la soglia, invece di passare addirittura per lo mezzo, furono visti studiarsi a rasentare la parete; e don Marcantonio in ispecie, per costume di persona oltre ogni credere lindissimo, passò in punta di piedi come si usa da cui vada per guazzo, per amore della calzatura. Arrivati che furono nella stanza del defunto genitore s'inginocchiarono tutti intorno al letto in sembianza di pregare, ed appoggiarono il capo alle materasse: di subito però, come se avessero toccato fuoco lavorato, si levarono d'impeto e partirono[4]. Don Marcantonio quando tornò a passare per la sala mi chiamò a sè con un cenno del capo; e mostratomi col dito il luogo dov'era caduta la matrigna, mi disse sotto voce:

      «Mi sembra, che in tanto tempo avreste pur dovuto trovare un momento per tòrre via cotesta macchia.»

      «Macchia! risposi io, e di che?»

      Tutti allora mi furono addosso, susurrandomi nel medesimo punto all'orecchio:

      «Di sangue... di sangue...»

      Ond'io, inchinatomi rispettosamente, soggiunsi loro:

       «In verità di Dio, padroni miei riveriti, si assicurino che con le mie proprie mani ho lavato sette volte il pavimento.»

      Allora si strinsero nelle spalle, e senza arrogere motto si partirono: io mi rimasi lì attonito, pensando che vagellassero.

      Breve però fu il convivere loro in famiglia: uno non poteva sopportare la vista dell'altro: ingiurie aperte non alternavansi mai, nè mai si levava rumore in casa, bensì di tratto in tratto si laceravano con motti coperti, che parevano morsi di cane da presa. Alfine chi se ne andò a ponente, e chi a levante: insieme rimasero soli due fratelli, stati per lo innanzi svisceratissimi, don Marcantonio e don Luca, di cui lo amore aveva retto alla forza segreta, che li menava a odiarsi scambievolmente: però ognuno di questi faceva vita nelle proprie stanze.

      Quinci a breve io vidi don Marcantonio farsi giallo in volto quanto i fiorini di oro di Firenze: gli occhi gli s'infossarono, e incominciò a guardare strambo; le gote e le tempie gli apparvero stranamente infossate, e su queste certe vene scure gli camminavano a modo di serpi verso il cervello. Ma quello che parve, e fu singolare davvero, consistè in questo: che di tanto magnifico egli era stato in prima, incominciò ogni giorno ad assottigliare la Spesa fino al puro necessario; licenziò i famigli; vendè i cavalli. Inoltre sul principio poco, più tardi punto uscì di casa, anzi dalla sua camera da letto: soffriva molestamente che io gliela nettassi: ed un bel giorno mi disse alla scoperta che me gli togliessi davanti agli occhi, e che non aveva bisogno dei miei servizi; lasciassi da mutargli lenzuola, salviette, nè niente, perchè era meglio tenersi intorno biancherie sudice, che servi assassini che spiano tutto, e ad altro non attendono che a rubarvi, e forse anche ad ammazzarvi.

      E siccome mi era saltato il grillo di non trangugiarmi cotesti improperi in santa pace, e faceva le viste di rispondere, egli agguantata una partigiana me la scagliò con tanta rabbia contro al corpo, che per miracolo la scansai; ed ella andò a conficcarsi nella porta, dove dopo avere tentennato un bel pezzo si tacque. La barba e i capelli gli crebbero sordidi e rabbuffati; lerce le mani; le unghie nelle punte nere come collari di tortora.

      Non accoglieva quel tristo nelle sue stanze nessuno, tranne certi sensali giudei e certi poveri diavoli con esso loro, che si menavano dietro come pecore condotte al macello: entravano cheti e languidi; cheti partivano, e barcollanti: qualche volta s'intendeva da cotesta porta uscire un rumore come di disputa, ma a voce fioca, che indi a breve diminuiva e poi cessava, quasi grido di gallina a cui venga tirato il collo; tale altra egli schiudeva un tantinetto la imposta perchè si mutasse l'aria della stanza, e vi si metteva davanti a fare la guardia: allora si spandeva fuori per la casa un fetore di lezzo da ammorbarne così, che tre bocce di acqua nanfa non bastavano a cacciarlo via. Agli operai, mercanti ed altra gente siffatta, quando venivano per danari, comecchè per la sua misera vita pochi fossero quelli che avevano credito con lui, faceva rispondere essere andato in campagna; a san Martino tornassero. I fratelli non trovavano la via a fargli metter fuori le pensioni a loro assegnate, che ora con questo, ora con quell'altro sotterfugio gli andava scarrucolando; finalmente dopo subbugli e minacce ottenevano formale promessa di pagamento; il giorno seguente venissero; troverebbero i danari belli e contati. Ma non eravamo a nulla: allorquando la notte seppelliva nel sonno ogni animale, ecco don Marcantonio alzarsi da letto, e con un lumicino, che pareva spento, appressarsi al forziere, aprirlo, e ai ducati quivi dentro con molto ordine disposti volgere queste parole:

      «Ah sciagurati, sconoscenti! che Dio vi danni, e il diavolo vi porti: perchè voi volete abbandonarmi? In che vi offesi? quando vi nocqui? quale mai danno avete riportato da me? Sopra l'anima, avanti di Dio vi adoro: io m'inchino, mi prostro davanti la vostra divinità: io vi ho ordinati, io messi in compagnia, io vi ho fatto gustare le dolcezze della famiglia. Sperperati nulla siete, uniti fate forza al cielo[5]; e perchè


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