Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
le colpe dei suoi maggiori; mallevadore innocente, e sventurato. Forse mi ostinava io a seguire le orme paterne? Non elargiva volenteroso quelle larghezze del vivere civile che mi si chiedevano? Negai cosa alcuna?
Io distendeva la mano supplice perchè sostenessero i miei passi, e verso cui la sollevava? Ad amico, ed a congiunto per vincoli strettissimi di sangue. No, voi non li sovveniste; ve ne siete vantati così per ispavalderia, o piuttosto per necessità di perfidiare, che a voi non conviene l'antico: sic vos non vobis mellificatis apes con quello che segue, e vale: le api ripongono il miele nei fiali, e i calabroni se lo mangiano. Non lo giurate, perchè tanto io vi terria spergiuri; ma, udite, caso mai voi foste complici, io vi cito a comparire al Congresso dei Rè che intima l'Agamennone francese e quivi vi accuserò di fellonia.—Ormai la Storia ha inciso nelle sue tavole, e con le vostre parole, che voi pregaste il capitano di cotesti avventurieri a non valicare lo stretto di Messina; voi spediste gente giurata a voi ed a lui cara,[1] perchè gli attraversassero la via; voi commetteste alla favilla elettrica di bandire al mondo la vostra ruina se il Garibaldi prima dei vostri soldati toccasse la Cattolica: o non vi ricordate, che otteneste la pazienza altrui per la presa della Umbria, e delle Marche appunto con la paura della rivoluzione? Non vi profferiste voi, proprio voi, di sperdere con civile battaglia la rivoluzione? E pure ieri,…testè, uno di coloro che ora governano, dichiarò aperto al Parlamento ributtare con tutti i nervi da sè la rivoluzione, nè avere saputo mai, che in Italia si operassero rivoluzioni; il moto ultimo, che raccozzava insieme ventidue milioni d'Italiani aversi a definire così: «svoltatura della Italia in senso monarchico costituzionale[2]»
[1] La pudica altrui moglie, a te si cara!
Parini
[2] Veramente egli disse evoluzione, ma concederebbesi volentieri ai Governanti di non favellare italiano a patto che italianamente operassero.
Bene stà; anco qui vi credo; ma allora perchè non foste meco a combattere i briganti? Perchè più tardi, e non in quel punto mandaste armati a schiacciarli? Cotesta fu la caccia al Falcone, gli levaste il cappello, lo avventaste contro il colombo, poi agitando il logoro per richiamarlo, gli riponeste i geti appollaiandolo sopra la stanga.—Perchè mai briganti quelli che in nome mio movono contro voi, e non briganti coloro che si gittarono contro me in nome vostro? Forse in virtù del plebiscito? Ma di plebiscito allora non si ragionava nè anco. Poteste, e sapeste risoluti troncare le gambe all'avventuriere in Aspromonte quando ei si spinse contro Roma, o come non poteste e non sapeste fermarlo quando calò su di me falco rapace per rapire a conto altrui?—Io era un libro bianco; dovevate aspettare prima di gittarmi sul fuoco a vedere che cosa ci avrei scritto: ecco, prima di peccare io mi trovo condannato; l'esilio amaro, il vituperio, forse la morte mi aspetta per colpe non mie. Chè se voi dite tradimento il combattere disperato dei miei, per me lo giudico magnanimo; ad ogni modo egli ebbe inizio dopo non prima la cacciata da casa mia. O che pretendete voi che i miei campioni battaglino alla vostra maniera per darvi agio di vincerli? Forse voi a mo' dei cavalieri antichi rifuggite dagli agguati? Aborronsi da voi tranelli ed insidie? Ogni arme buona in guerra massime in questa slealissima dove le armi ministra il furore. Ah! voi m'infamate ladro, e ladri i miei; restituitemi il regno, e pagherò regolarmente le milizie così, ch'io le dannerò alle debite pene dove commettano la millesima parte di quello che pure fanno le vostre pagate e nudrite su le mie terre col mio. Certo, si capisce, che voi avreste a grado rinvenire pei boschi i miei fedeli morti d'inedia, o attriti dal digiuno in guisa da pigliarli come conigli in parco; grande invero e truculento il misfatto loro non volere finire di fame; hanno torto, ma da necessità costretti dove trovano arraffano: difettano i miei della vostra virtù, e pensano giustificarsi con la sentenza dei pubblicisti, che afferma nei supremi bisogni rivivere la pristina comunione delle cose. Quanto ad opere di sangue riardono dentro noi l'ira dei traditi e la rabbia degli spogliati; avventurosi i vostri i quali immuni da cosiffatte passioni possono procedere benignamente miti…. Voi non ammazzate a sangue freddo persona, non inferocite mai, non trucidate l'innocente invece del reo, udite sempre le discolpe, attendete le testimonianze altrui, i supplici esaudite, i traviati perdonate, all'altrui pianto piangete.—
Devo, io rendere conto al popolo delle colpe paterne? Ma, io figlio per piacere altrui non doveva mostrarmi snaturato: chi si raffida rinvenire ottimo re in pessimo figliuolo fa male i suoi conti. A me non istava maledirlo. Se il padre mio fu spergiuro, se nemico alla libertà, se crudele, se, cupido quanti principi furono nei tempi passati diversi da lui? E pure qual re di piccolo stato, come egli, seppe opporre porre animo alteramente sdegnoso contro Potentati, che sgomentavano allora, e sgomentano adesso col solo aggrondare del ciglio i minori regnanti? Se nella mente del re mio padre capiva il concetto di dominare la Italia certo è, che veruno al mondo se lo sarebbe reso mancipio.
E voi al re del mio regno moveste mai rimprovero delle colpe paterne? Non osaste, e sta bene; ma perchè a me sì, e a lui no? Dunque non camminate nelle vie della giustizia; voi adoperate due pesi e due misure; ma troppo voi ardite di più, che mentre rovesciate contro la memoria del padre mio parole ardenti da disgradarne la lava del mio Vesuvio, voi rubereste i raggi al sole per circondarne la tomba del re Carlo Alberto; voi consumaste per celebrarlo ogni metafora panegirica, la favella nostra giace rifinita pel saccheggio degli aggettivi encomiatori sbraciati su la memoria di lui. La pietà e la modestia dovevano essere poste custodi a cotesto sepolcro: voi ci metteste la menzogna e la provocazione. Chi fosse il re Carlo Alberto io vergognerei desumerlo da gente vendereccia di cui la coscienza si acquista a un tanto la canna; guardimi Dio da tirare innanzi il giudizio di uomini stranieri, o a me devoti: mirate, io vi squaderno davanti agli, occhi tre testimonianze de scrittori piemontesi, tutti reputati uomini retti, comecchè zelatori di massime fra loro diverse, e ministri suoi; le quali scritture essi dettarono non pure mentr'egli viveva, ma altresì quando l'anima di cotesto re riparava sotto il manto del perdono di Dio, e di quello degli uomini: potendo più in taluno di loro l'amore del vero commecchè con certezza di tornare sgradito, per la piaggeria provvisioniera di tristo pane, e d'infamia. Prima il conte Santorre Santarosa morto per la libertà a Sfatteria: quel desso Santarosa, ad onorare la memoria del quale mercè povera lapide, ora il Piemonte tardamente pietosa va in volta a razzolare con pena pochi danari, il Piemonte, che dianzi si votava le tasche di rincorsa per erigere al morto conte di Cavour monumento regio:[1] mirate qui vi narra come il principe di Carignano Carlo Alberto acconsentisse alla rivoluzione del Piemonte, la quale doveva accadere nel giorno otto marzo 1821; il dì innanzi, ecco correre una voce nefasta: Carlo Alberto avere disertato dalla bandiera; ed era vero; tuttavia ei rampogna i congiurati di poca fede sicchè tornano a deliberare il movimento, e nondimanco mentre Carlo Alberto assicurava i congiurati del suo consenso pienissimo spediva ordini, e disponeva le cose per modo da rendere impossibile qualunque atto a Torino esponendo a pericolo mortale il Santarosa ed il Collegno! e fu tiro cotesto, che a parere del Santarosa, potrebbe qualificarsi perfido, ma ch'egli, discreto, desidera piuttosto attribuire a naturale ambage della indole di lui.—Considerate attenti il libro del prode Santarosa: Carlo Alberto il giorno 13 marzo annunzia la costituzione dalle finestre del palazzo, il 14 la giura…, accorsi i Milanesi a profferirgli di buttare all'aria la Lombardia, gira nel manico, e si tira indietro, onde al conte Santorre tocca dire: «dov'era andata allora, o Principe, la smania antica di liberare la Italia dallo straniero? Donde in voi siffatto mutamento? Forse, l'ardire si destava in voi quando la occasione di adoperarlo era remota, e cagliava avvicinandosi?» Il rifiuto del re di ricevere Lisio, Santarosa, e Collegno si giudica come difetto di cuore a sostenere i liberi sguardi di tre animosi cittadini, mentre forse fin da quel punto gli stava fisso nella mente il pensiero di tradire la Patria.—Se in vece di Villamarina prepone al ministero della guerra il cavaliere Bussolino, sì il fa: «perchè con la scelta di uomo meritamente riputato lealissimo da tutto il partito costituzionale ei si lusinga celare meglio i disegni nefari.» E già la Costituzione era abbandonata dal suo capo spergiuro, quando interrogato dal ministro dello interno circa le voci sinistre, Carlo Alberto le ributta sdegnoso come contumelia plebea; poi dà la posta dell'ora pel giorno veniente al ministro dello interno e ad altro collega, per negoziare intorno alle faccende di stato; e nel fitto della notte si fugge conducendo seco le guardie del corpo, l'artiglieria leggera, i cavalleggeri di Savoia, e il reggimento Piemonte reale cavalleria; che se domandi (così sempre ragiona il conte Santarosa) per quale causa egli rifuggisse da mettere in esecuzione con le proprie mani il meditato tradimento, così bene ordito da lui, per