Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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le nicchie dirimpetto i sette sapienti della Grecia; essi tacciono perchè loro sta lo ingoffo in gola; se mai favellano borbottano come quelli, che tengono sempre il boccone in bocca: rettile di nuova specie, il Moderato si assidera finchè dura il tempo del ragionamento; quando poi spira l'aura dello errore e della servitù si rizza fischiante, e velenoso a mordere la Libertà, che lo sopporta. Miralo! cieco e incatenato ai suoi compagni contro la Patria, e la Libertà pari a Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, il quale privo di vista, è fama, che così facesse insieme alla sua baronìa nella battaglia di Crecy[1].—Chi non ha le mani pure, vada prima a purificarsi, e torni poi a sagrificare nel tempio, comanda il Vangelo, e noi chiunque tira soldo, e tiene ufficio di governo non apra labbro, se gli cale la fama, nei Parlamenti, e rifugga da parteciparvi, che le intenzioni Dio solo guarda, e l'uomo diritto ha da aborrire ogni sembianza, che sia vile. Prima a costui per la salute della Patria non parve abbastanza appiccare fuoco al Vesuvio, ora con poco spazio di tempo accostato ai geli delle Alpi, anch'essi non reputa sufficientemente ghiacciati: prima il popolo voce e braccio di Dio, adesso polvere soffiata dal Demonio su questa terra; o dove te sacramenti sincero, e immune da ogni vile talento, sarà, ma comincia dallo affermarlo senza il boccone in bocca: sputa i dodicimila franchi; sputa la cattedra; sputa la strada ferrata; sputa la badìa, sputa, e sputa o poi parla. Capitani allo esercito, Professori alle università, Giudici ai tribunali: la sua parte ad ognuno. E gli Avvocati dove? In paradiso a tenere compagnia a Santo Ivone, che ci entrò (dicono) di contrabbando.—Lo dissi e lo ripeto, il popolo ha proprio sete di onestà.—Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma sia che dobbiamo ridurci in pace, ovvero rompere in guerra; o procediamo congiunti con la Francia, o ci separiamo da lei; o soli vogliamo combattere le nostre guerre, o in compagnia di Francia combattere le comuni: così durando nè per noi siamo buoni nè per altrui.—

      [1] Froissard, Croni. t. 1. p. 238.

      Contrariamente ai presagi, ci dicono uomini, che lo potrebbero sapere come lo imperatore di Francia si disponga a levarsi da Roma, lasciando libero, il popolo romano di eleggere il reggimento che meglio desidera: dopo quattordici anni e' sembra, che si voglia ricordare a Roma essere andato appunto per questo; gli è un po' tardi per la verità, ma meglio tardi, che mai. Certo Romolo per fondare Roma consultò gli avvoltoi dell'Aventino non i galli di Parigi: Roma si avrebbe a pigliare col dosso non già con la palma della mano voltata al cielo; in questo modo si chiede la elemosina: e noi andremo a Roma con la Libertà come il contrabbandiere col frodo sotto: non così, non così si salisce il Campidoglio a salutare le anime latine, bensì si scende nelle Catacombe a gemere sopra i martiri cristiani, e nondimanco pazienza! Purchè fosse…! Le memorie della romana grandezza io vo' confidare che a mo' della piscina miracolosa monderanno il popolo italiano della turpe lebbra della moderazione o fracida, o ladra, o codarda. Deplorabile cosa questa, che la gente la quale moderata si appella, per onestare la bruttezza loro abbiano inquinato gli affetti come i nomi più santi, non si potendo comprendere politica, etica, anzi neppure domestica economia senza moderazione.

      E se fosse, come i nostri avversari si ripromettono ed io no, certamente noi avremmo a correre le fortune della Francia, con questa avvertenza però, che le fossero d'accordo con le nostre; ed anco se comparissero fino ad un certo punto diverse, non però contrarie; inoltre si avrebbe a porre mente, che le fortune le quali noi possiamo correre con la Francia approdassero alla Francia, ovvero alla Francia ad un punto e al suo imperatore, imperciocchè se favorendo gl'interessi di questo non giovassero alla Francia, e peggio se gli nocessero allora adagio ai ma' passi, che per cosa al mondo io non vorrei movere orma, la quale forse lo imperatore mi ponesse a credito, e certo poi la Francia mi appuntasse a debito. Mutabili le dinastie nel mondo; mutabilissime in Francia, la quale non ardua a pigliare, è una maladizione tenere: breve, io vorrei che l'aquila non mi portasse seco nè nei suoi voli, nè nella sua caduta, e cessando il principe mi rimanesse lo stato: concetto, che senza alterazione di amicizia non solo apparisce lecito, ma è doveroso professare ai reggitori di popoli. Rammentiamoci sempre di questo, che Cristo, il quale o Dio infatti, od uomo prossimo alla divinità, non disse parola mai che non palesasse tutta sapienza e sommo amore, bandì inesorabilmente «chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia.» E lo impero è surto dal sangue.

      Adesso poi supponiamo il caso certo meno grato, ma giusta la opinione mia più verosimile assai, che i Francesi non intendano sgomberare Roma, che avanza a noi? Pigliarcela. Oppongono pieno di pericolo il partito: e veramente è così: dubitano possiamo precipitare nel mandarlo ad effetto: certo si corre rischio di rompercisi il collo. O dunque mal consiglio è il tuo? No, bensì l'unico prudente, e lascio da parte se animoso; unico prudente perchè a tale siamo ridotti noi, che altra elezione non ci resta, che tra la morte certa, e la morte probabile; rimanendo fermi noi fuggiamo l'acqua sotto le grondaie. Agevole riesce molto negare il danno, ma impedire che sia gli è un'altro negozio: ora da ogni lato compaiono segni di disfacimento; hanno creduto, e credono ricucire con filo di ferro, e precipitano nella buca dentro cui altri tracollò a capo fitto: che se pei reami antichi trovarono buona la sentenza che non hanno più ragione di vivere quando si appoggiano unicamente su la forza, verissima la sperimentiamo negli stati nuovi sorti dalla benevolenza del popolo.

      Ci domandano il modo di pigliarla, e noi rispondiamo: «che giova dirvelo? Tanto voi non ardireste praticarlo: voi affermaste avere diritto su Roma, e poi allibiste rifiniti dalla paura; gli è fiato perso a favellare con voi; noi vi proveremmo uguali a Bertoldo, il quale non trovava albero che gli garbasse per esserci impiccato. Ve ne suggerimmo uno senz'armi e voi lo dileggiaste, e faceste dileggiare come delirio di cervello che abbia dato nei gerundi; ve ne mostrammo un'altro con armi, e voi lo malediste ribellione, e levando insegna contro insegna, crisma contro crisma, perfidi![1] spasimanti e urlanti di paura lo faceste affogare nel sangue; eravi un dì tale tra voi di voi non tristo meno, ma più sagace, che avrebbe acceso i moccoli a piè dei Santi per la mossa del prode uomo Giuseppe Garibaldi, e con tutte le sue forze lo avrebbe fatto sloggiare da Sicilia; traversato, che costui avesse lo stretto di Messina egli, senza posa, addosso; dov'ei levava il piede egli metteva l'orma, così a Napoli, e così al Volturno; relitte le terre sicule non lo lasciava per questo, all'opposto sempre dietro talchè le spalle di lui sentissero l'alito focoso delle sue nari: l'uno con molta mano di gregari fuggendo, e l'altro con molto esercito regolare inseguendo giunti su la piazza del Vaticano, arrestati, e arrestatori sarebbero entrati di amore, e d'accordo in San Pietro a cantare il Te Deum più sincero, che Dio ascolti da moltissimi anni a questa parte.» Questo avrebbe forse fatto il Cavour inetto a operare e ad operare grandemente, pure capace ad approfittarsi dell'operato altrui; adesso i suoi successori, il Ferrari ha detto si rassomigliano ai generali di Alessandro; nè manco per ombra! La politica che ora prevale è quella del cane dell'ortolano, il quale non mangia cavoli e non li lascia mangiare.

      [1] «……..in Francia voi «Correre, insegna contro insegna, e crisma «Contro crisma levar, perfidi!» Adelchi

      Provvidenza o Fortuna che sia voglionsi ammirare i casi portentosi pei quali l'uomo, che pure si stima avvisato, se altra volta pensò, che la volontà, e la forza di un popolo commesse ad un braccio di ferro potessero meglio ricondurre la Italia all'antica grandezza, ora bisogna, che si ricreda e confessi che Libertà interna ed esterna scaturiscano scintille di spada percossa di un colpo solo su la pietra. Ci fu un'ora in cui se fosse apparso un'uomo robusto, che nei plebei diletti non imbestiasse sua vita, in cui un'anima grandemente cupida, non ragnatelo a cui paresse disgradare Cesare od Alessandro chiappando una mosca, e portarsela a risucchiare dentro al buco; un'anima ferocemente disdegnosa, la quale avesse voluto agguantare Roma come si agguantano le corone, non già come s'intascano l'elemosine, e posto la mano dentro ai capelli d'Italia con alto grido detto a noi: «tacete, e combattete; finchè vive in questa terra uno schiavo allo straniero non vi è permesso favellare di Libertà.» Noi lo avremmo seguitato: noi gli avremmo messo in mano la rivoluzione come il fulmine in quella del Saturnio.—Forse era a temersi Cesare, ma ben venuto Cesare a patto che se ei ripugnava cibarci del pane della Libertà ci saziasse almeno di quello più duro della Gloria; non permettesse, che la nostra vista restasse contristata dalla gente vile che sta nell'atrio del tempio della Libertà, pubblicana perpetua da Cristo, e prima di Cristo per vendere e per barattare.—Quando gli Ebrei, vinte le colpe loro dalla moltitudine delle nostre, diventeranno nostri signori e padroni, questa gente vile li surrogherà nel ghetto a venderci ciarpe, e panni vecchi; delle loro anime non si gioverà nè manco


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