Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
ameno quanto lo Spielberg villeggiatura allestita per gl'Italiani dalla nostra amica Austria! Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette al Gombo in foce di Arno! D'incanto passando in incanto, ecco il palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l'ultimo giorno di carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all'aula dei senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra crescono all'ombra dell'aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci. Certo bell'umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose:—che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare via via i senatori defunti se n'era allestito un semenzaio sotto casa.—Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei Senatori, come diceva lui, in Senato non ce ne ha che tre quarti, tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l'arebbono a mettere?—E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza, guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l'architettura concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa l'effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l'architettura non fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve definire così: ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il senso comune; colà non occorre linea che vada diritta; storta la facciata, storte le scale di cui la prima a gradini convessi, e la seconda concavi, storta la sala: chi l'architettò e' fu un Guarini, che Dio riposi, e deve averlo disegnato in profezia, che un dì avesse ad essere la stanza del primo parlamento italiano, conciosiachè la strage del buon senso architettonico di cotesto arnese non può trovare degno riscontro altro, che nella strage di parecchi sensi, che quivi dentro tutto dì menano i Rappresentanti della nazione.
[1] I ceci a cagione della ventosità loro ed in generale tutti i legumi danno mal sonno.
Delle opere di scoltura questo dirò, che lo stesso signore Azeglio, non Massimo, ma quell'altro, che discorreva di arti, tutto che Azeglio fosse, gittò gli argini, buttando fuori roba da chiodi: se vuoi trasecolare va di grazia nella piazza del Municipio, e quivi contempla in mezzo quel gruppo che sembra composto di spinaci, ed è di bronzo, di parecchie figure armate in guerra di maglie di seta, disposte in atti di morto, di chi va a morire, e di chi ci manda; il Conte verde, però che il gruppo rappresenti l'effigie del Conte verde, (e tu lettore hai da sapere come qualmente in casa al tuo re ci fosse un Conte verde, e poi un Conte rosso: quanto al Conte verde, come vedi, egli si attenta comparire per le piazze; circa al Conte rosso ei se ne sta chiotto nella sua antica sepoltura pauroso, che il Questore di Torino non lo facesse portare diritto come un cero nella parte postica del palazzo Madama) al quale nell'uno, vale a dire nell'uno dopo il mille, un giorno venne voglia di piantare il ceppo donde nacque il nostro re in linea diritta diritta più di un fuso, secondochè attestano documenti registrati in Duomo, ed Ercole Ricotti nella Monarchia Piemontese stampata in Firenze dal Barbèra, il Conte verde, dunque in vaga positura mimica tiene levata la mazza d'arme su la persona di un guerriero circonciso (la circoncisione non si vede, ma chi voglia alzargli la camicia di bronzo la potrà vedere) il quale inclinato il fianco lo sta a mirare con l'estasi degli apostoli quando pioveva giù a stroscia lo Spirito Santo, e par che dica: «me la dai, o non me la dai, chè ad aspettarla io mi sento stracco?»
Hacci un simulacro del Principe Eugenio, che un po' mi parve dall'uggia di sentirsi da tanto tempo murato su cotesto piedistallo lo abbia preso la mattana, e venuto in furore con la parrucca arruffata, le vesti scinte, il collo ignudo voglia pigliare una rincorsa per andarsene, Dio sa dove, a finire; ovvero, povero uomo! (anche agli eroi siffatte cose incolgono) soprapreso nella notte dalla colica sembra, ch'ei siasi lanciato giù dal letto per arrivare laggiù colà dove confida rinvenire refrigerio. Questa smania di fare correre le statue, qualche malizioso affermerebbe, che a Torino si fa più intensa alla stregua che gli uomini vivi ci stanno fermi; di vero anche nel giardino pubblico il simulacro del Generale Pepe, non ricordando essere di marmo, scappa via; lo scultore dove non potè tradire la verità fu nella statua di Cesare Balbo: quelli, che lo videro vivo, ed ora lo contemplano di marmo, non si accorgono della differenza; però se marmo sono i suoi scritti, e marmo i suoi concetti, di marmo, non fu il suo cuore, quando balenò la speranza di erigere il monumento della Italia, e per la Italia diede più che il sangue del proprio cuore, quello dei suoi figli, e volontieri anco credo, che da quel marmo uscirebbero fiamme se gl'Italiani pigliassero il partito di mettere ogni cosa allo sbaraglio per diventare una volta padroni di sè. La statua della Italia pare una gessinaia lucchese che venda i medaglioni del Manin; quella del Gioberti in forma di modello sul quale i sarti provano i vestiti, a capo basso, con una mano al petto ti rappresenta giusto un penitente, che dica: mea culpa per avere creduto, e dato ad intendere, che la Italia potesse sorgere a dignità col Papa a Roma; del monumento di Carlo Alberto basti questo, che chi avesse a lavorare una saliera potrebbe cavarne un disegno, ma non dei migliori; anco su la piazza del Municipio havvi una statua di marmo di Carlo Alberto in tutto simile ad un cero pasquale cascato da parte. A mio giudizio la statua che solo ne meriti il nome è quella equestre di Emanuele Filiberto. Quanto ad arti pertanto immagino, che egemonìa non avrebbero a volere esercitare i Piemontesi, almeno mi parrebbe, poi facciano loro![1] Vediamo se in lettere a cosiffatta egemonia possano i Piemontesi aspirare; io mi guardo bene da contrapporre ai vanti loro Dante, e gli altri, imperciocchè se stesse a me ogni toscano, che rammentasse il nome di cotesti grandi indarno, io lo vorrei condannato in carcere per quindici dì con gli ultimi cinque inaspriti di pane e di acqua come soleva ordinare la buona anima del Radetzky, e poi gli fosse fatto divieto di mai più ricordarli finchè la Toscana non avesse partorito almanco una mezza serqua di uomini capaci di arrivare alla caviglia del piede dei grandi antenati. E' bisogna capirla una volta, che ogni generazione dee vivere del suo lavoro, come della sua sapienza, e della sua gloria; non fare come gli sciagurati perdigiorno i quali campano mangiandosi il capitale raccolto dai nonni. Nè mi uggiscono meno il vanto e la lode dell'antica civiltà etrusca, che affermano antecedente fino alla pelasgica, ed a certa degna persona che meco se ne congratulava risposi:—gran mercè, quantunque in coscienza io non mi estimi erede del re Porsenna, nè dei Lucumoni.—Chè se la civiltà toscana altro non seppe che somministrare i riti religiosi ai Romani, che furono detti cerimonie da Cere città sacra etrusca, e lo scettro, e la sedia di avorio, non che il manto purpureo ai re di Roma, io renunzio a questo retaggio di civiltà per me, e per tutti i miei discendenti in perpetuo; tra noi se il Piemonte si onora del Denina, del Lagrangia, del Galliani, del Botta, del Gioberti, del Pellico, dello Sclopis, del Balbo, del Cibrario, del d'Azeglio, del Mossotti, dello Alfieri e di altri simili, la Italia di contro a loro vanta caterve di uomini insigni in ogni maniera di sapienza umana; la Lombardia ha Scarpa, Volta, e Verri, e Beccaria, e Manzoni, e Grossi, e Cattaneo, e Ferrari, e Romagnosi; la Emilia Leopardi, Bufalini, Puccinotti, Matteucci; Parma, Giordani, Recanati, Leopardi; Napoli e Sicilia Colletta, Ranieri, Nicolini, Melloni, Piria, Pilla, gli Amari Emerico e Michele; Modena, il Nobili; la Toscana il Niccolini; il Ferrarese Monti; Venezia Ugo Foscolo; Verona Pindemonte, e via e via. A Brofferio oppongo il Giusti; e noto, che la satira di questo ultimo si spande per la Italia, e ci alligna, mentre quella del primo discolora, non mica per difetto d'immagini, ovvero di felici scappate, bensì perchè anteponendo il dialetto piemontese alla lingua italiana ordì tela municipale; e che razza di dialetto sia il piemontese che ve lo dica per me, tanto che udendo un giorno recitare dal buon Brofferio taluna delle sue canzoni piemontesi alla domanda ch'ei mi mosse: che me ne pareva, io risposi netto: me ne pare questo, che credendo avere appreso dalla mitologia che Apollo avesse scorticato Marsia; ora mi accorgo dello errore, almeno quì in casa vostra, dove sento Marsia cavare Apollo «dalla vagina delle membra sue.» Alfieri merita abitare eterno co'