Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
io ho saputo per certo, che fu un giorno deliberata una materia d'importanza alla presenza di sua eccellenza, e di ciò fu commessa la lettera per la esecuzione al Signore Fabri secretario deputato a detto carico, ma sua eccellenza fece poi chiamare esso secretario in camera sua, ed ordinogli altramente, onde fu eseguito per lo appunto il contrario di quanto era stato deliberato con maraviglia di tutti quelli consiglieri suoi. Di modo che si può dire assolutamente che delle cose sue sua eccellenza intende, o vero vuole e delibera a sua voglia sola.» Il che si rassomiglia come uovo ad uovo al Consiglio convocato da Serse prima di rompere la guerra con la Grecia dov'egli dopo salutati i Satrapi, secondochè ci testimonia Valerio Massimo al capitolo quinto del Libro IX della opera sua, così prese a dire: «non ho voluto parere di fare le cose di testa mia, però voi vi avete a ricordare come vostro debito sia non consigliare bensì obbedire.» Adesso qualche cosa circa allo amore di Emanuele Filiberto archetipo dei Reali di Savoia per la onesta libertà dei popoli, nonmenochè dello studio ch'egli poneva a mantenere gli antichi loro diritti: «per dimostrazione di questa sua potestà, continua il medesimo oratore, che intende, che sia assoluta non ha voluto tenere li tre stati del suo paese, come l'obbligano le convenzioni antiche della casa di Savoia con li suoi confederati, osservate sotto ciascun altro principe passato.» Che cosa poi fossero questi tre stati si ha dall'altra Relazione di Francesco Morosini, il quale rincalza la testimonianza del Boldiù: «solevano al tempo degli altri duchi di Savoia essere divisi in tre parti, che loro dimandano stati, cioè cherici, gentiluomini feudatari, e gente popolare; li quali erano convocati dai duchi sempre quando volevano qualche donativo dal paese, o mettere qualche angaria ai popoli, e con questi si accordava il lutto. Ma dopo il ritorno in istato di questo signor duca, parendo a lui di averselo acquistato con la spada alla mano, e che la ragione di guerra voglia, che i popoli restino liberamente alla discrezion dei principi, perdendo ogni privilegio, che per lo innanzi avessero ottenuto nei tempi in cui si erano volontariamente dati, però non è mai parso a sua eccellenza di fare questa convocazione, ma ha voluto disponere a modo suo liberamente mettendo da se tutte quelle angarie che gli è piaciuto mettere, di che universalmente tutti ne restano male soddisfatti.
E tu considera fede, e giustizia: imperciocchè se i suoi dominii erano venuti in potestà altrui ciò doveva attribuirsi a difetto del debito del principe, il quale consiste appunto nel difendere i popoli al suo reggimento commessi, onde non egli ad altri, bensì altri a lui doveva farne pagare le pene. E questo come vero in massima si trovava verissimo in pratica, essendochè i popoli non fossero venuti meno alle difese, nè alla devozione; mancò il duca al popolo non il popolo al duca; anzi Chieri abbandonato si difese per modo, che quando il presidio ne uscì gli uomini e le donne pei patimenti sofferti parevano fantasmi; a Rivoli, disertate le sue campagne, vide morire mille persone, tra cui molte per fame, e tre soli nascere. Cuneo respinse l'assedio dei Francesi, affaticandocisi dintorno non pure gli uomini, ma le donne altresì, tra le quali famose Giovanna sorella al conte di Etremont, ed Eleonora dei Rabìa; la terra della Trinità in pena del pertinace soccorso apportato a Cuneo rimase dall'Annibault quasi distrutta: la difesa di Nizza, e il valore della Segurana conosca il mondo così, che ogni parola intorno a quella parrebbe soverchia.—La tirannica ingratitudine di Emanuele Filiberto tanto più offende ogni senso morale, che proprio contro la volontà espressa di Carlo III, suo padre, i Nizzardi gli salvarono Nizza, e lui. «In queste strette, attesta il Ricotti Storia della Monarchici piemontese l. 4 p. 252, l'ardire e la fedeltà dei cittadini di Nizza, e dei soldati parte Piemontesi, e parte Savoini, che presidiavano il castello, salvarono il Duca, e forse la monarchia.» Intimati dal Duca di consegnare Nizza al Papa Paolo III, ovvero allo Imperatore Carlo V. i Nizzardi rispondono: essersi dati a patto, che non venissero mai ceduti nè alienati senza il consentimento loro; e dove questo accadesse essersi riservati il diritto di resistere con le armi, e tanto oggi essere risoluti fare, e senza dare tempo alle risposte gridando: Savoia! costrinsero quel duca dappoco a tacersi scornato. Il presidio del castello preso odore che i Signori di Musinese e di Bourges, quegli capitano, e questi luogotenente volessero tradire, e forse era sospetto, li cacciarono via non senza un carpiccio delle buone; poi udendo che il Padre Carlo aveva menato il figliuoletto Emanuele Filiberto al bacio dei santi piedi di Paolo III padre di Pierluigi Farnese proruppero a furia sotto la guida di Aimone di Lullin, e di Grato di Provana, lo ripresero, e menatolo in castello giurarono difenderlo, finchè il fiato reggesse. Questo singolare duca di Savoia di certo non pensava a riunire sotto la sua dominazione la Italia, dacchè ponesse tanta smania a sottoporre i suoi sudditi alla straniera dominazione quanto altri ne mette ora a liberarneli, per modo che non contento se non si provava all'ultimo cimento, raccolti così soldati come cittadini Nizzardi nella piazza di San Giovanni egli prese a dire: «ma, signori, voi siete sudditi miei; io sono vostro principe e signore, o perchè dunque non volete, che il papa e lo imperatore alloggino nella città e nel castello quando ve lo dico io?» Risposero: «voi siete nostro signore, e sarete; viva Savoia!» e più pertinaci, che mai di non volere ammettere persona se ne andarono via: della quale risoluzione vivendo il duca in ansietà grande ebbe dal Provana il conforto di queste parole: «Non si dia pena Eccellenza, che questa volta le rape di Savoia, il burro di Piemonte, e il porco salato di Nizza hanno fatto insieme una pietanza, che ne anco il diavolo ne mangerebbe.» Emanuele Filiberto molti anni dopo, aggiunge il Ricotti su le testimonianze del Lambert, e del Gioffredo, confessava all'ambasciatore di Venezia avere potuto conoscere sicuramente che Carlo V. voleva rubargli Nizza per servirsene con Villafranca per iscala da passare dalla Spagna in Italia. Io non aggiungo parola però che mi parrebbe sciupare la impressione, che arreca tanto mostruosa ingratitudine. E nè manco era vero, che il duca avesse ricuperato il Piemonte con la virtù delle sue armi; egli lo riebbe per rimbalzo delle guerre con varia fortuna combattute tra Francia, Spagna ed Inghilterra; il trattato di Castello Cambresi non restituì ad Emanuele Filiberto nè tutti, nè definitivamente i suoi stati; la Francia conservò le piazze di Torino, di Chivasso, di Villanova, di Asti, di Chieri, e di Pinerolo obbligandosi a restituirle dopo assettate le sue differenze col duca per via di congressi, o di arbitri; e ciò avvenendo la Francia arebbe smantellato del Piemonte e della Savoia le piazze, che le sarebbe parso. La Spagna per converso terrebbe presidio in Asti e Vercelli finchè non isgombrasse la Francia. Inoltre toccò a Emanuele Filiberto, giovane di trentuno anno, chiudere gli occhi e mandare giù la pillola amara della moglie Margarita sorella del re di Francia donna attempata di 40 e più anni; nè questo è tutto: Nizza, la prode, e fedelissima Nizza, allora, come ai dì nostri, turpemente sagrificata imperciocchè pel trattato di Grudendal tra Filippo II e il duca rimanesse stabilito che il re metterebbe e pagherebbe il presidio del castello di Nizza, e dei forti di Villafranca; darebbe in dote 60 mila scudi a donna Maria figliuola naturale del duca: i castellani giurerebbero fedeltà al re e al duca, e morendo questi senza eredi il re diventerebbe assoluto padrone di coteste terre.—Gli scrittori piemontesi confessano siffatto accordo frutterebbe a Emanuele Filiberto eterna infamia, se la ineluttabile necessità non lo scusasse;—dacchè, essi aggiungono, il duca non avesse parte nel congresso, e fosse del tutto in balia della Spagna, salvo lo aiuto che per emulazione gli potesse venire dalla Francia; la quale cosa posto, che sia, come la raccontano, gli è falso espressamente il pretesto, ch'egli allegava per dominare assoluto, la liberazione dei suoi stati dal dominio straniero per virtù di arme.
Nè gli scrittori piemontesi negano questo; al contrario facilmente confessano, che sul cominciare del secolo decimosesto il difetto di coltura non era compensato con la gloria delle armi, le quali erano misere ed incerte; e la difesa dello stato non usciva già dalla copia, nè dalla prodezza delle milizie paesane, bensì dal danaro proprio, e dall'avarizia altrui.—
Ma non è vero, che negli altri stati d'Italia si procedesse a quel modo; anzi il vero è al contrario, nè gli stessi Scrittori piemontesi lo ignorano, dacchè lo stesso Ricotti nella Storia delle Compagnie di ventura in Italia ci attesti Firenze e Orvieto fino dal 1350 avere istituito i balestrieri del contado per affrancarsi dalla infamia della milizia mercenaria; e Venezia più tardi con l'ordinamento delle cerne; ed altri altrove; ma più che tutti da capo Firenze la quale a' conforti di Antonio Giacomino Tebalduccio, e di Niccolò Macchiavelli instituì nel 1506[1] la ordinanza della milizia fiorentina con le prescrizioni, e norme che si leggono per le storie, e da prima furono diecimila nel contado di Firenze solamente fanti, sei anni dopo si fecero anco cavalli nel numero di 500. Questa abolita dalla tirannide dei Medici, ecco Giovanni dalle Bande nere formare la stupenda milizia di cui la memoria ancora non